La fotografia dell’industria è un genere complesso, forse il più difficile da affrontare, spesso a causa dell’impossibilità di individuare chi siano gli effettivi autori di quella quantità di scatti confluita in archivi di elevato valore culturale. Alle immagini dell’industria realizzate da anonimi operatori integrati nel processo produttivo, si sommano quelle dei free-lance, esterni all’organizzazione della fabbrica. A queste serie bisogna aggiungere poi i fotografi-artisti, per i quali il mondo dell’industria è solo lo spazio dove si materializza la performance estetica. Le differenze tra le due posizioni sono sostanziali. Questi diversi «atteggiamenti fotografici», per usare le parole di Siegfried Kracauer, con le loro inevitabili varianti, li ritroviamo tutti nella mostra Factory, in corso alla Fondazione Rolla di Bruzella, fino al 27 gennaio.

L’esposizione si segnala in particolare per il taglio pedagogico, ormai così inusuale, dato appunto dalla sequenza dei diversi registri attraverso i quali è stata ritratta la realtà dell’industria. Nei luminosi ambienti di quello che fu il Kindergarten del piccolo centro ticinese, è possibile ammirare le severe e teutoniche immagini degli anni trenta di Albert Renger-Patzsch e di Ruth Hallensleben, nelle quali si esprime la cura esasperata nel restituire il soggetto in modo il più possibile distaccato, addirittura metafisico. Tutto il contrario rispetto al solo scatto del più giovane e sperimentale Ludwig Windstosser, che in camera oscura trasfigurava le mastodontiche sagome dell’industria grazie alle possibilità offerte dalla pellicola fotomeccanica. Se Windstosser, seguendo i dettami del Bauhaus, confidava nelle infinite possibilità offerte dalla «manipolazione della luce» (Moholy-Nagy), i primi ritraevano en plein air «le cose» (Die Dinge) industriali dell’homo faber a Merseburg o nella Rühr come dotate della stessa armonia di quelle esistenti in natura. Il tutto infonde l’idea che «il mondo è bello» – per usare il titolo del più famoso libro di Renger-Patzsch (Die Welt ist schön, 1928) –, salvo accorgersi, a pochi anni di distanza da quegli scatti, della sua caducità: come ebbero in sorte sia l’industria tedesca sia l’archivio di Renger-Patzsch a Essen, entrambi cancellati dalle bombe alleate. Tuttavia, pur congenito alla tecnica fotografica, l’attitudine all’oggettivo che mai impedisce l’autonomia e la libertà del fotografo, sopravvisse alla tragedia bellica.

In mostra la linea Neue Sachlichkeit tra le due guerre si ritrova tre decenni dopo nelle foto di Bernhard Becher (Untitled, 1960); resiste ancora, impenitente, in quelle di Renger-Patzsch degli anni cinquanta, ma già devia con Kurt Blum (Warmwalzwerk, 1959). È intrigante osservare come la componente soggettiva che quei fotografi credevano di espellere attraverso la precisone della tecnica, sia successivamente ‘rientrata dalla finestra’. Basterebbe il confronto tra Windstosser, del gruppo Fotoform (1949), e lo statunitense James Welling (Finishing Room, ’93), degno emulo della lezione della «fotografia soggettiva» così come il suo connazionale Tom Baril è nostalgico interprete del realismo di Weston e Steichen.

La sintesi del confronto diacronico tra queste due polarità è dato dalla foto, realizzata da Baril, della possente pipeline sospesa su traliccio (Bethlehem Steel, 2003), vicino alla prospettiva delle torri di evaporazione di Werner Matz della fine degli anni venti. Solo in apparenza si somigliano. La distanza non è quella temporale ma, come suggerì Welling in un’intervista, «interpretativa»: consiste cioè nel «districare l’ambiguità del significato fotografico» – come anche il percorso espositivo invita a fare. Ecco dunque, sempre seguendo le differenze tra significati e tecniche fotografiche, esplicitarsi con chiarezza le opposte polarità nei laconici scatti di Giuseppe Chietera, o in quello altrettanto algido di Vincenzo Castella (Untitled, 1995), e il grande trittico di Christof Klute che ritrae la inedita prospettiva interna della beherensiana Turbinenhalle a Berlino, dentro la quale ci sembra di essere immersi mentre guardiamo le sue pareti vetrate. Se è un artificio diffuso tripartire un unico soggetto, eterogenei risultano gli effetti, come si avverte ad esempio nella «decostruzione» dello stabilimento Rolla operata da Fabio Tasca.

Conclusa la visita della mostra, al di là delle (apparenti) consonanze di tecniche e linguaggi, a sopravanzare sono soprattutto le differenze. Quale ultimo esempio di dualità, c’è il confronto tra Enrico Minasso e Oliver Boberg.

Se il primo è attratto dall’archeologia del moderno, il secondo la rifugge per i simulacri del presente. In quindici fotogrammi dalla grana pastosa e scura, l’italiano crea una tassonomia degli attrezzi, ormai superati, del lavoro in fabbrica: pezzi sopravvissuti alla catastrofe della de-industrializzazione. Nella foto di grande formato del tedesco (Parkplatz, 1998), invece, la sagoma di uno stabilimento è solo virtuale, si tratta infatti dello scatto di un modello in scala, così sapientemente contestualizzato da sfidare il verismo del rendering. In entrambi, potremmo dire, l’industria è resa perturbante: fantasmatica per la presenza dei suoi resti, o simulata nella sua dimensione immateriale.