Nel linguaggio confuso autorizzato dalla pochezza delle argomentazioni, la tendenza del «per-me-ismo» non consente alcuna analisi sia sulla situazione attuale sia sulle prospettive del futuro. Invece, proprio quando gli industriali si dicono convinti che i designer non servono più e i critici, anziché analizzare il problema, guardano il dito che indica la luna, il ragionamento che parte dal «per me è così» mostra tutti i suoi limiti a la sua insipienza.

Tanto più che il sistema della moda sta cambiando veramente, soprattutto in quegli aspetti che si tengono lontani dai riflettori della «mediaticità per-me-ista» che non sa leggere i fenomeni che si rendono evidenti sotto il proprio sguardo. I segnali più convincenti arrivano proprio da quei designers che hanno rotto il meccanismo ripetitivo dei riferimenti tradizionali e si stanno rivolgendo alla lettura delle alternative possibili al gusto imperante.
«I miei riferimenti della moda non vengono dalla storia delle grandi Maison ma dalla strada. La mia idea di moda deriva dalla vita normale, non dalla declinazione delle mode dell’establishment». La scorsa settimana Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha portato la sua collezione Gucci Cruise a sfilare a Londra, dove per lo show gli è stata concessa l’area dei chiostri dell’Abbazia di Westminster.

La collezione è praticamente una dichiarazione d’amore alla storia inglese e alle culture che ha sviluppato, visto che Michele ha perfino mescolato Elisabetta I e il punk, ottenendo abiti che sembrano stranianti solo a chi non guarda a quanto succede sulle strade di tutto il mondo perché è troppo occupato a controllare quello che accade nel microcosmo ristretto dei suoi seguaci sui social network. O perché si è rifugiato nei piccoli spazi di un guardaroba che è rassicurante solo perché è accettato dal proprio ambiente diventato asfittico anche in se stesso.

A Michele di Gucci corrispondono altre esperienze. Per esempio, Gosha Rubchinskiy, ventotto anni, nato a Mosca, che nelle sue T-shirt, felpe e jeans mescola l’estetica sovietica con quella della chiesa ortodossa e che la prossima settimana sfilerà a Firenze ospite di Pitti Uomo. Che piaccia o meno, la sua è una moda che non tiene assolutamente conto della tradizione e la sua tensione a fondare una nuova espressione è stata notata da Rey Kawakubo, una delle più avvertite esploratrici del rinnovamento che, attraverso il suo Comme des Garçons, ha comprato il marchio del giovane post sovietico.

Un altro esempio è Demna Gvasalia, nato in Georgia, trasferitosi a Parigi per lavorare da Margiela, fondatore del marchio di street style Vetements e dalla scorsa stagione anche direttore creativo di Balenciaga e che, a luglio, sfilerà una collezione di street couture durante la settimana della Haute Couture a Parigi.
Compromettendosi personalmente con le pulsioni che arrivano dalla strada, i creativi di questa post generation prendono le distanze sia dalle polverose e nostalgiche immagini della moda del passato sia dai condizionamenti dei follower digitali e da loro, si spera, potrà nascere quella moda del terzo Millennio che stenta a formarsi. Nulla di nuovo: anche Yves Saint Laurent non ha guardato il Sessantotto da una finestra e compromettendosi con le piazze ha inventato la moda del secondo ’900.

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