E se ci scaldassimo con lolla di riso, panelli di mais, paglia, potature di viti, ulivi e alberi da frutta ? Tra le fonti di calore rinnovabili figura anche il cosiddetto agri-pellet, il pellet ricavato non dalla segatura, ma da varie tipologie di cascame agricolo o da erbacee. Stiamo parlando di una super-nicchia che non dirimerà la questione energetica ma che potrebbe aiutare le aziende agricole a valorizzare i loro residui migliorando nel contempo la sostenibilità delle produzioni.
Giuseppe Toscano, professore dell’Università Politecnica delle Marche e direttore del Laboratorio Biomasse, da 20 anni studia e analizza i vari utilizzi delle biomasse a fini energetici. «Per la loro bassa densità energetica, le potature non sono convenienti da trasportare. Però, una volta pellettizzate, quindi densificate, allora diventano più economiche da trasportare, quindi possono alimentare caldaie di medie e grandi potenze, in grado di gestire la combustione di prodotti di bassa qualità come l’agri-pellet perché dotati di sistemi che controllano le emissioni in atmosfera», ci spiega.

L’agri-pellet non garantisce le medesime prestazioni del pellet ottenuto da legna, quindi non si presta a essere utilizzato nelle piccole stufe domestiche perché ha un maggiore tenore di ceneri, ma anche di zolfo, azoto e cloro. «Non è un prodotto che possa sostituire o competere con il pellet di legno di qualità, è destinato a un mercato diverso – dice Toscano – meglio se sviluppato in filiere corte, se non proprio a livello aziendale, almeno di distretto agricolo a servizio di utenze locali, così da risultare un ciclo più virtuoso. Penso a zone viti-vinicole, ogni anno impegnate nella gestione di enormi volumi di potature non sempre interrabili per motivi fitosanitari. I tralci non hanno nemmeno bisogno di essere essiccati, basta la stagionatura sulla pianta, e possono essere ridotti ad agri-pellet sul campo mediante l’allestimento di un cantiere mobile di pellettizzazione che può servire le aziende di un territorio». Si eviterebbe anche la combustione in campo dei residui agricoli, «le peggiori dal punto di vista delle emissioni in atmosfera», avverte Toscano. L’investimento per produrre agri-pellet si aggira sui 100mila euro, più o meno come un macchinario agricolo.

A credere nell’agri-pellet sono anche quattro giovani freschi di studi di economia dell’Università Cattolica di Milano che hanno avviato la start-up Planeta Renewables per la produzione di agri-pellet da coltivazioni di Miscanthus Giganteus, una graminacea perenne. Si tratta di un ibrido in grado di crescere su terreni marginali di bassa qualità, anche ad alta concentrazione salina, che necessita di poca acqua, poca manodopera, assorbe molta CO2, migliora la qualità del suolo, è fitodepurante, ha un ciclo ventennale e si raccoglie ogni anno.

Ne coltivano 75 ettari tra Abbiategrasso, Vigevano e Bergamo. «Abbiamo contratti di filiera con alcuni agricoltori con un prerequisito: che mettano a coltura solo terreni incolti, marginali – dice Lorenzo Avello, 21 anni, fondatore di Planeta Renewables – non avrebbe senso coltivare Miscathus su terreni fertili e sottrarre risorse alla produzione di cibo o mangime animale. Abbiamo già iniziato la commercializzazione di agri-pellet con buoni riscontri, lo vendiamo a impianti di taglia media, per lo più a piccole imprese. Per ora ci stiamo scontrando con un vuoto normativo che non riconosce il Miscathus come prodotto agricolo, ma il 3 aprile saremo a Bruxelles a un incontro sulle biomasse agricole per porre la questione».