Il Sinodo straordinario della Chiesa cattolica sulla famiglia è senza dubbio l’evento sinora più importante nel pontificato di Papa Francesco. Quello che si profila è uno scontro, duro e senza precedenti almeno dagli esordi del Concilio Vaticano II, tra “conservatori” e “progressisti”. Il terreno specifico della contrapposizione sarà quello della riammissione dei divorziati risposati al sacramento dell’eucaristia; ma le ricadute del conflitto saranno più ampie e finiranno col riguardare lo stesso destino dell’istituzione.

Qualcosa di molto importante è già evidente: le polemiche incrociate che hanno preceduto il Sinodo hanno reso chiaro che la Chiesa, al pari di tutte le grandi organizzazioni complesse, è al proprio interno fisiologicamente plurale e divisa, tra una “destra” che ritiene debba prevalere la continuità storica, l’assoluta fedeltà alla tradizione, l’opposizione frontale alla modernità, e una “sinistra” che invece pensa che il messaggio cristiano vada calato nella storia e che esso debba confrontarsi concretamente con i bisogni, le domande, le inquietudini delle donne e degli uomini di oggi.

Un conflitto che attraversa, in modi diversi, tutte le grandi religioni e che anche nel cattolicesimo esiste da tempo. Ora però, dopo decenni di sua autoritaria soppressione, può emergere allo scoperto. È un passo decisivo verso la democratizzazione della Chiesa, del quale dobbiamo ringraziare soprattutto il papa e la sua decisione di provocare questo dibattito, di accenderlo senza timore delle potenziali conseguenze laceranti per il tessuto ecclesiale.

Detto questo, bisogna cercare di comprendere la natura dello scontro in atto. Su questo occorre essere molto chiari e dire quello che pochi, mi pare, hanno detto: e cioè che nella prassi pastorale, nella vita reale delle comunità cristiane, il problema della riammissione dei divorziati alla comunione eucaristica è già ampiamente superato. E da tempo. Nel senso che la stragrande maggioranza dei parroci non nega, già oggi, l’accesso al sacramento ai divorziati risposati. Alcune volte, soprattutto con i praticanti più assidui, il gesto è fatto precedere da un dialogo serio e approfondito sulle vicende sentimentali della persona divorziata; talaltre, soprattutto in occasioni particolari quali, ad esempio, la prima comunione o la cresima di un figlio, la comunione è concessa ai divorziati come una sorta di umanitario “strappo alla regola”.

Sta di fatto che, nella prassi, pochissimi sono oggi i preti che mostrano il volto duro, inflessibile e rigido della Chiesa dogmatica e invece tanti quelli che si mostrano compassionevoli e comprensivi. E ciò in virtù di un fatto semplicissimo: e cioè che i preti e i parroci vivono in mezzo al popolo di Dio e sono costretti, volenti o nolenti, a fare i conti con la realtà delle scelte personali, delle separazioni, delle sofferenze sentimentali, delle aspirazioni alla felicità e all’amore di tutti noi. È solo in qualche palazzo curiale, nelle ridotte conservatrici, che le vicende umane del nostro tempo (che includono inevitabilmente separazioni, divorzi, nuove nozze) possono essere ignorate. Perché lì non ci si trova di fronte alle donne e agli uomini in carne ed ossa e si può esibire una fedeltà dogmatica e inflessibile alla tradizione cattolica che, calata nella realtà delle parrocchie, là dove abita il popolo di Dio, appare semplicemente come disumana e brutale. E solo nelle stanze dei vescovi reazionari che ci si può illudere che con la ferocia di norme obsolete si possano spostare all’indietro le lancette della storia. Questo comunque non succederà.

Se il Sinodo deciderà di resistere ad ogni ipotesi di modifica e se questo indurrà il papa, che continua ad essere l’unico titolato a prendere una solitaria decisione finale su questo punto, a rinunciare ad ogni modifica della dottrina e della prassi pastorale, l’unico risultato sarà stato quello di aumentare lo “scisma sommerso”, la fuoriuscita silenziosa di fedeli dall’istituzione e la distanza tra la due chiese: quella di popolo, immersa in profondità nella storia e nei drammi della nostra epoca, e quella di vertice, interessata a difendere concezioni della famiglia ideologiche, assurde e prive di praticabilità pastorale, cioè non applicabili nella vita quotidiana delle comunità cristiane, che attendono invece dall’alto un segno di attenzione e considerazione per la loro situazione reale.

Su un punto, su uno solo, i conservatori hanno ragione: questo «ce n’est qu’un début», non sarebbe che l’inizio di un cambiamento epocale.