Una delle ultime colonie che esistono ancora al mondo -17, secondo l’Onu, di cui 2 francesi – vota domenica per decidere sull’indipendenza. Per la Nuova Caledonia o Kanaky, arcipelago del Pacifico sud attorno alla Grande terre, l’isola principale a 16.740 km dalla Francia metropolitana, il voto rappresenta la conclusione di un processo che è durato trent’anni e, qualunque sia il risultato, dovrebbe significare il punto di partenza per una nuova era.

LA DOMANDA a cui devono rispondere i 174.154 elettori della lista speciale concordata dopo molte tensioni (alle elezioni politiche e amministrative in Nuova Caledonia gli elettori sono 210mila, per il referendum sono stati introdotti dei criteri sulla durata della residenza nell’arcipelago) è: «Volete che la Nuova Caledonia acceda alla piena sovranità e diventi indipendente?». I sondaggi dicono che vincerà il «No» a larga maggioranza (l’istituto Harris dà il «No» al 66%). I partiti dell’isola, tre si sono schierati per il «No», due per il «Sì» e un altro per l’astensione. La Nuova Caledonia, che deve il nome a James Cook che aveva trovato che l’isola della Grande Terre assomigliasse alla Scozia, amministrativamente non è più «colonia» dal ’46. Era diventata un Tom (Territorio d’oltremare), poi ha acquisito progressivamente autonomia, citata nella Costituzione francese, che comprende anche il riconoscimento di leggi locali e istituzioni proprie (il governo locale può firmare accordi internazionali e siede in alcune organizzazioni internazionali, esiste inoltre una nazionalità della Caledonia).

«Non potremo rimanere immobili dopo il referendum» ha affermato il primo ministro, Edouard Philippe che lunedì sarà a Nouméa, la capitale. Se vince il «No», secondo gli accordi di Matignon dell’88 è prevista la possibilità di convocare un nuovo referendum sull’indipendenza tra due anni e, in caso di nuovo rigetto, un terzo voto due anni dopo.

 

Emmanuel Macron, che si è recato nel maggio scorso nell’arcipelago, ha ricordato che «la Nuova Caledonia porta nella memoria rivolte represse nel sangue e divisioni tra tribù organizzate dal colonizzatore per meglio asservire».

OGGI, IN NUOVA CALEDONIA vivono popolazioni di diversa origine: i kanak, gli autoctoni, sono il 39%. Poi c’è tutta la storia dell’arcipelago, diventato colonia francese nel 1853: i discendenti dei condannati al bagno penale, francesi e algerini (la colonia penale ha funzionato dal 1864 al 1924); quelli dei pionieri e dei missionari; pieds-noir e Harki venuti dopo la guerra d’Algeria; popolazioni venute dal Pacifico e dall’Asia, tutti ormai riconosciuti dai kanak come «vittime della storia» e quindi associati al destino dell’arcipelago.

IL REFERENDUM di domenica è la conclusione di un lungo processo, iniziato nell’88, dal governo di Michel Rocard. Dall’84 all’88, la Nuova Caledonia vive in un clima da guerra civile, che ha fatto un’ottantina di morti, gli «avvenimenti» culminati con la presa di ostaggi nella grotta sacra di Ouvéa qualche giorno prima della rielezione di François Mitterrand, finita con un massacro: 19 indipendentisti uccisi assieme a due gendarmi che erano tra gli ostaggi. Un mese dopo il massacro di Ouvéa, una stretta di mano storica segna una svolta: il leader degli indipendentisti kanak del Fnlks (Fronte di liberazione nazionale kanak e socialista), Jean-Marie Tjibaou, si incontra con Jacques Lafleur, leader (legato all’Rpr, destra) dei caldoches (gli abitanti originari della Francia metropolitana). Un gesto importantissimo, per Tjibaou, che sarà assassinato nell’89, assieme al suo braccio destro, Yeiwéne Yeiwéne, da un indipendentista radicale, Djubelly Wéa.

I KANAK hanno molto da perdonare: nel ’31 alcuni di loro furono esposti nello «zoo umano» all’Exposition universelle a Parigi, nell’arcipelago le terre vennero confiscate a favore dei coloni venuti dalla Francia metropolitana, il diritto di voto per i kanak è concesso solo nel ‘57. Ancora oggi, il tasso di povertà è più forte tra i kanak, solo il 4% ha un diploma superiore (28% nella popolazione generale), mentre i proventi della principale ricchezza delle isole – il nickel, un quarto delle riserve mondiali – non arrivano alla popolazione locale (e per di più oggi il prezzo del nickel è al ribasso a causa dell’entrata nel mercato di paesi a più bassi salari). A Nouméa, la capitale dove vivono i due terzi della popolazione, la vita è cara (i prezzi sono più alti del 34% rispetto alla Francia metropolitana, +65% per gli alimentari), le case hanno prezzi da Costa Azzurra. Molti kanak vivono in bidonville, minati dalla disoccupazione. L’economia della Nuova Caledonia dipende molto dalla Francia, che con i trasferimenti (1,4 miliardi di euro l’anno) assicura il 15% del pil locale. All’orizzonte, c’è la Cina che aspetta di prendere il sopravvento, in caso di ritiro progressivo di Parigi.

GLI ACCORDI di Matignon-Oudinot dell’88 (con Rocard) e poi l’accordo di Nouméa nell’89 (con Lionel Jospin) hanno preparato da lunga data il referendum di domenica, sulla base della «sovranità condivisa». Un ruolo importante in questo processo è stato svolto dalla chiesa protestante, presente in Nuova Caledonia dai tempi degli inglesi (Rocard era e Jospin è protestante). Una schiacciante vittoria del «No» rischia di trasformarsi in una sopraffazione dell’ala pro-Francia, mentre l’arcipelago ha bisogno di proseguire nel processo di decolonizzazione, che finora è stato principalmente amministrativo, ma non economico.