I «Cahiers du cinéma» ripartono. Dopo una lunga crisi (vedi il manifesto del 12 febbraio), finita con le dimissioni di una parte della redazione e seguita da un mese di pausa, il primo numero della nuova era di questa rivista un tempo nota per la sua copertina gialla e per la sua impertinenza critica è arrivato nelle edicole francesi. È il 766esimo. A cosa somiglia?

IL FORMATO è ancora quello degli ultimi quindici anni. Ma alcune scelte iconografiche suggeriscono un cambiamento di rotta. Negli ultimi anni i «Cahiers» hanno pubblicato diverse copertine in stile magazine (alcune molto belle), contravvenendo a una tradizione consolidata della rivista che, con qualche rara eccezione, ha sempre usato solo foto di film. In questo numero, sotto la scritta Cahiers du cinéma, c’è appunto una semplice foto «di cinema», un fotogramma (ritagliato) de Gli ultimi giorni del mondo dei fratelli Larrieu. Un bel film sfortunato, d’argomento apocalittico, ma dal tono gioioso.

Nell’immagine, Matthieu Amalric correre nudo sul Quai d’Orléans tenendo per mano Omahyra Mota. D’altro canto, poiché questo film non ha nessuna attualità cinematografica, la foto è usata proprio come si fa in un magazine: per illustrare un’idea. In questo caso, una tesi sul momento in cui si trovano il mondo, il cinema, e anche i «Cahiers». Il numero è stato creato durante il periodo di «confinement», in cui come in Italia uscite in sala e festival (tra i quali Cannes) sono stati messi tra parentesi (o su Vod).

C’è una seconda lettura possibile, più interna – quasi un private joke. Il film è del 2009, proprio l’anno in cui i «Cahiers», venduti da «Le Monde» all’imprenditore Richard Schlagman, entrano nella fase che si è chiusa con il numero precedente (il 765, aprile 2020) dove, con un editoriale nel segno di «après moi, le déluge», l’ex redattore capo Stephane Delorme annunciava la fine dei (suoi) «Cahiers» e della critica in genere in un numero dal titolo Che cos’è la critica ?.

Il titolo è più che mai supponente (in linea con una rivista che dell’arroganza ha fatto un’arte), ma va dato atto ai redattori, ormai sicuri di essere fuori, d’aver avuto un bello scatto d’orgoglio. Il n.765 rimarrà come un bellissimo esercizio pratico-teorico d’invenzione critica. Detto questo, l’apocalisse della critica annunciata da Delorme è certo più una postura che una vera analisi della situazione. E il neo nominato Marcos Uzal ha fatto bene a rispondere con leggerezza e ironia, con l’immagine di questi due Adamo ed Eva moderni che sfidano la fine del mondo correndo felici attraverso Parigi (non lontano dalla sede storica della rivista). E con un titoletto retro-performativo: «Usciamo?».

SE LO LEGGI, vuol dire che i «Cahiers» sono già «usciti». Nudi e felici. Così pare. Ma che cosa vuol dire, per una rivista, presentarsi al mondo come mamma li ha fatti? Difficile non diffidarne. Non c’è nulla di più ideologico che la frase: non ho ideologia. In realtà, anche il candore è una politica, e ha una storia. Esteticamente, la copertina è l’equivalente d’una strizzata l’occhio ai «Cahiers» degli anni 80/90 – periodo in cui, con la direzione di Serge Toubiana, la rivista diventa la voce ufficiale del cinema d’autore francese. Erano gli anni in cui Jack Lang, ministro della cultura di François Mitterrand, ridisegnava gli strumenti di auto-finanziamento del cinema e dell’audiovisivo.

L’insieme degli strumenti messi in campo servono in particolare a sostenere i «film d’autore». Difficile intendersi su che cosa siano, ma il modello a cui si pensa allora è quello del Truffaut di L’ultimo metrò: un film francese, d’argomento alto e di fabbricazione di qualità, che funziona in sala e può essere venduto all’estero. I «Cahiers» di quegli anni parlano di tutto: dell’insorgenza delle nuove nouvelles vague asiatiche, della coda della New Hollywood, del cinema documentario… Ma stanno soprattutto al fianco di questo cinema moderato, d’autore ma accessibile. Il lettore si abitua talmente a questa politica filo-francese che storce il naso quando i «Cahiers» osano una copertina su Batman di Tim Burton.

È QUESTO RUOLO d’accompagnamento che da molte parti si dice che la rivista, in questi ultimi anni, ha perso. Ammesso che si accetti questa tesi, resta un problema pratico. Il cinema d’autore degli anni 80/90 era in una fase espansiva. Mentre il periodo attuale è esattamente il contrario (come mostra proprio il caso dei Larrieu). Da un lato, il cinema d’autore è diventato una nicchia. Dall’altro, al posto che fu di André Malraux e di Jack Lang al ministero della cultura siede oggi un triste manager di cui nessuno ricorda il nome, e l’unica politica è quella di lasciar fare al mercato. Il ritorno al passato è quindi impossibile. E quello al futuro?

APRIAMO il numero, e vediamo. Il primo testo è l’editoriale del nuovo capo redattore Marcos Uzal. Il suo profilo sembra cucito apposta per rispondere a questa operazione di ripristino dei «Cahiers» d’autore: eleganti, aperti, moderati. Nel suo passato c’è la rivista «Vertigo» (un buon periodico di analisi e di teoria del cinema). Per qualche tempo, è stato editore (della casa editrice Yellow Now, alla quale si devono alcune ottime monografie). Cosa che fa ben sperare per il rilancio delle edizioni dei «Cahiers» (da dieci anni abbandonate). Prima di maggio si trovava nel gruppo cinema del quotidiano «Libération». D’altra parte, si tratta di un innesto. Il suo editoriale, Sur le point, è anche il primo articolo che Uzal scrive per la rivista. Si tratta di un pezzo piuttosto diligente, circospetto e quindi non particolarmente impegnativo, in cui il nuovo capo si toglie qualche sasso dalla scarpa (ma senza polemizzare), presenta la copertina (ma senza farne una bandiera), rivendica la scelta d’un numero con molti testi teorici (ma ricordando che è un mese particolare).

E IL RESTO del numero? Si legge. Alterna appunto dei testi teorici e delle inchieste giornalistiche, all’immagine del profilo dei critici d’oggi, che per lo più sono sfornati da studi universitari di cinema o di giornalismo. La critica del cinema non fa parte né dell’una né dell’altro, ma è piuttosto un filo teso tra la storia del cinema e la sua attualità. Difficile dire ora se a questa nuova redazione verrà voglia di provare a camminare su quel filo. Per il momento, gli articoli di giornalismo sono assai ben fatti (una buona inchiesta sul Vod, un’ottima intervista con il montatore Yann Dedet); quelli di teoria e analisi sono ben scritti ma odorano un po’ di tesi di dottorato. E in generale l’insieme sa più di routine che di corse folli a culo nudo sulle rive della critica. Quello che stupisce non è tanto che il numero, fatto in queste condizioni eccezionali, sia bislacco. Ma al contrario che sia posato, ben ordinato, ben equilibrato, senza rischi. Come la redazione, che comprende esattamente sette maschi e sette donne. L’avventura è appena (ri)cominciata, e il minimo che si possa fare è augurare buon lavoro alla nuova redazione.