È sorprendente sentir sostenere la tesi della resa da chi – come Vincenzo Comito sul manifesto del 27 gennaio – si dichiara fautore «dell’intervento dello Stato nell’economia». Soprattutto fa riflettere che l’idea opposta la sostenga da qualche anno con tenacia e lucidità un dichiarato liberista ed europeista, come il prof. Ugo Arrigo. In ogni caso la resa non è la soluzione per Alitalia. Non lo è soprattutto per l’Italia, per i cittadini e per i lavoratori. Questi ultimi, insieme a molti altri dell’indotto, subiscono da anni una mattanza occupazionale, in nome di ristrutturazioni che hanno sistematicamente ridimensionato la compagnia di bandiera, regalando alla concorrenza fette di traffico «da/per» e «nel» nostro paese e condannando l’Alitalia ad un nanismo senza speranza. Tutto ciò in ossequio ad un disegno che Loyola De Palacio, Commissaria europea per i trasporti, ebbe la franchezza di svelare già nel 2000, affermando che in Europa sarebbero rimasti solo 3 vettori globali (British, Air France, Lufthansa), ovvero le compagnie di bandiera dei paesi di serie A, mentre gli altri vettori avrebbero svolto traffico «ancillare» (le low-cost dilagarono successivamente). Mentre il traffico passeggeri è cresciuto circa del 6% l’anno negli ultimi 2 lustri, in Alitalia sono stati licenziati circa 12 mila dipendenti ed oltre 30 mila nel suo indotto.
La resa ai tedeschi di Alitalia non è un’ancora di salvezza per il nostro paese in cui il turismo rappresenta un importante asset da alimentare con voli di medio e lungo raggio. Ridurre Alitalia a una navetta per trasportare passeggeri verso gli aeroporti tedeschi o della concorrenza (come successo con Parigi all’epoca «capitani coraggiosi») ha pesanti ripercussioni nell’intero comparto.
Se è vero che la pandemia per certi versi, con il recente crollo del traffico passeggeri, ha fatto piovere sul bagnato per Alitalia, già in difficoltà, è altrettanto evidente che costituisce una crisi dalla quale si può uscire in condizioni migliori. Infatti sono enormi le difficoltà di tutti i principali vettori europei e non solo. Non è un caso che Germania e Francia, ma anche alcuni giganti Usa e dei paesi del medio-oriente, stiano letteralmente pompando ingenti risorse economiche pubbliche nelle casse delle loro compagnie di bandiera e/o di riferimento.
Però, ad oggi, nessuno dei vettori dei Paesi citati ha dismesso aerei fino a dimezzare la flotta o tagliato del 50% il personale: l’obiettivo che si sono posti è quello di trovarsi pronti alla ripartenza del mercato del trasporto aereo.
Ed il mercato ci crede alla ripartenza del trasporto aereo visto che, solo per fare alcuni esempi: Wizz Air ha aperto nel 2020 oltre 85 rotte in Italia ed è in attesa della consegna di 249 aeromobili entro il 2026, Air France, con 7 miliardi di aiuti statali, non ha disdetto l’ordine di 60 A220 e ne ha opzionati ulteriori 60, Lufthansa, destinataria di circa 9 miliardi di aiuti pubblici, ha confermato l’ordine di 80 nuovi aeromobili per il 2023, Ryanair ha ordinato ulteriori 75 aerei che si aggiungono alla conferma d’acquisto di altri 210 aerei.
Invece il Piano di Ita, la newco che dovrebbe sorgere dalle ceneri di Alitalia, è in assoluta continuità con il passato nonostante l’importante investimento pubblico di 3 miliardi del governo. Sembra che si voglia ripetere gli errori del passato, quando a fronte di una crisi (le torri gemelle, la guerra in Iraq) le scelte fatte dai principali concorrenti sono state di segno opposto a quanto fatto dal management italico che ha tagliato e ridotto il network, la flotta e, irresponsabilmente, il personale. Ciò che lascia basiti è che dal Piano quinquennale (un’era geologica per il trasporto aereo) emerge con nettezza la resa di Alitalia, a spese dei contribuenti: il progetto industriale sembra mirare a confezionare il bocconcino per la concorrenza, prevedendo lo smembramento e un significativo ridimensionamento della compagnia, lautamente ricapitalizzata, oltre allo sbarco di metà del personale in forza.
Nel Piano si ripropongono gli stessi obiettivi che aveva il ministro Calenda e contenuti nell’intesa sottoscritta con alcuni sindacati ma sonoramente respinta dai lavorator nel referendum di aprile del 2017, succeduto poi dal precipitoso avvio del commissariamento ancora in essere e dal quale spero emergano i danni e siano richiesti i dovuti risarcimenti a chi ha prodotto lo schianto di Ali-Etihad di renziana memoria.
La lettera della Ue arrivata tempestivamente in risposta all’invio dello schema del Piano manifesta la pretesa della Verstager di cancellare qualsiasi ipotesi di rilancio: una vicenda che dovrebbe far capire quanto siano forti le spinte per mettere le mani sul ricco mercato del trasporto aereo italiano.
Ancor più inaccettabile poi è la lettera di risposta di Ita alla Ue: approssimativa, densa di errori e a tratti scellerata, soprattutto quando assicura che i lavoratori non avranno alcuna garanzia di continuità occupazionale, né di continuità salariale e normativa. Eppure strade alternative per neutralizzare tanta tracotanza esistono e andrebbero percorse, come sostenuto dal già citato prof. Arrigo e sintetizzato in un emendamento al Milleproroghe di Fassina: acquisto degli asset e compendi aziendali della vecchia Alitalia da parte del governo. È vero sicuramente che questo comporterebbe l’esborso di ulteriori soldi pubblici come però è altrettanto ovvio che sia, soprattutto nell’attuale fase in cui è necessario concentrarsi sulla ricostruzione industriale del paese, in cui comprendere il settore aereo-aeroportuale ed il suo indotto. Alitalia compresa.
Analogamente arrendersi ai tedeschi su cieli italiani sarebbe una scelta scellerata e pericolosa. Speriamo che il governo cambi rotta e decida di fare un salto di qualità, a partire dalla scelta di un management davvero all’altezza di centrare l’obiettivo di salvataggio e rilancio di Alitalia. Un traguardo da raggiungere qui ed ora.

* segretario nazionale Cub (Confederazione unitaria di base)