Quando si percorre la storia della democrazia e si prova a definire l’eguaglianza, ci si scontra con un problema ricorrente. E cioè che eguaglianza e democrazia si definiscono prevalentemente in base a quello che escludono. Un esempio storico su tutti è quello fornito da Aristotele, per il quale la comunità degli eguali nella polis, per esistere, deve fare affidamento sugli schiavi, gli esclusi dall’eguaglianza dei cittadini. Proprio dalle forme escludenti di eguaglianza nell’antica Grecia e Roma, passando per quelle del cristianesimo, delle rivoluzioni inglese americana francese, della società capitalista liberale, fino a quelle del socialismo reale del ventesimo secolo, si snoda la ricerca di Aldo Schiavone, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia (Einaudi, pp. 375, euro 20).

SECONDO SCHIAVONE, ciò che ci aiuterebbe a uscire dalla trappola di un’eguaglianza escludente e dunque solo negativa, qual è quella dominante ancora oggi, sarebbe un filone alternativo del discorso politico e filosofico che, parallelamente a quello che è prevalso, ha caratterizzato l’occidente in certi frangenti. Tale filone alternativo può essere fatto risalire a Antifonte (V sec. a. C.), il primo a dare una definizione naturalistica e universalistica dell’eguaglianza. Antifonte infatti pone l’eguaglianza non solo tra coloro che fanno parte della comunità della polis. La sua idea di eguaglianza considera anche chi è fuori le mura della città, tanto i Greci quanto i barbari. Per Schiavone la naturalistica e universalistica definizione di eguaglianza di Antifonte sarebbe vicina a quella dell’«impersonale», oggi promossa soprattutto dal filosofo Roberto Esposito.
Intesa come impersonale, l’eguaglianza non si ridurrebbe alla cittadinanza, alla famiglia, allo stato-nazione, alla forma giuridica e teologica della persona, alla classe sociale dell’individuo lavoratore o consumatore. Secondo Schiavone, l’eguaglianza fondata sull’impersonale farebbe semplicemente riferimento alla mera «corporeità della nuda esistenza» spogliata di ulteriori qualifiche, le quali non farebbero altro che mascherare (una maschera era in origine la persona) l’umano da identità separate inevitabilmente conflittuali e escludentisi.

PER SCHIAVONE, l’impersonale, essendo la costatazione della dimensione egualmente naturale biologica dell’umano, può diventare la strada per arrivare a avere ragione sia delle esclusioni prodotte dalle personificazioni individualistiche (io), sia di quelle collettivistiche (noi). Secondo lo studioso, la nuda vita dell’impersonale, che avrebbe nella storia del pensiero un momento particolarmente importante in Spinoza, non solo dovrebbe congedare le eguaglianze meramente formalistiche del diritto fatte proprie soprattutto dal liberalismo politico, ma anche quelle sostanzialiste che si sviluppano a partire da Rousseau e che hanno in Marx il loro momento più pregnante. Questo ambizioso e coraggioso libro solleva tante questioni, fra queste se ne segnalano due brevemente: la «nuda vita» su cui si basa l’eguaglianza «impersonale» avocata da Schiavone è una definizione non semplicemente naturalistica ma bio-politica e separativa dell’umano.

CIÒ SUONA PARADOSSALE nell’attuale fase storica, quando i presunti confini biologici dell’umano si fanno sempre più incerti proprio grazie a quella tecnologia applicata al vivente che di scorcio Schiavone affronta nelle pagine finali del suo libro. Se è vero che il lavoro (e il capitale) si è rivelato essere sempre di più un fascio di rapporti che sono andati persino oltre il sociale (l’ambiente, la rete, l’ingegneria bio-genetica, la robotica pongono il lavoro in un fascio di rapporti più complessivamente ontologici) e sempre meno produzione, allora forse bisognerebbe non depennare il lavoro stesso, ma considerarlo sotto diverse e pur sempre centrali modalità nella questione dell’eguaglianza.