La Dichiarazione Universale dei diritti umani contempla il diritto alla libertà di movimento e di migrazione. Freedom of movement and residence, cose diverse e connesse.

Il primo comma dell’articolo 13 dichiara che «ogni individuo» ha il diritto di muoversi e risiedere «entro i confini di ogni Stato» (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione interna al singolo stato nazionale).

Il secondo comma dell’articolo 13 dichiara che «ogni individuo» può liberamente lasciare il proprio paese e ritornarvi, lasciare «qualsiasi paese» e ritornare nel «proprio» (ecco anche una libertà individuale e collettiva di migrazione esterna e generale, come andata, come ritorno, come andata senza ritorno, come andata con ritorno).

Libertà di migrare, diritto di restare. Segnalo subito una conseguenza implicita. Una migrazione forzata è di norma arbitraria e vietata, transitoriamente ammissibile se proprio si vuole solo in casi eccezionali, in sostanza quando non c’è alternativa alla necessità immediata di spostare qualcuno.

L’articolo successivo contempla il diritto di asilo.

Asilo si può dare solo a chi è perseguitato nel proprio paese (cosa giustissima), «riconoscendolo» come refugee (cosa giustissima), ma non ad altri migranti forzati.

Esistono? Si esistono!

Nella motivazione del Premio Nobel per la Pace 2007 (ad Al Gore e al gruppo di scienziati dell’International Panel on Climate Change) e nella recente Enciclica papale (al punto 25) si sottolinea il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate e si ricorda che oggi il rifugiato climatico non ha riconoscimento giuridico.

Da una decina di anni vari organismi scientifici e dell’Onu ripetono che saranno circa 250 milioni i rifugiati climatici entro il 2050, pure nello scenario migliore (e qualcuno sostiene entro il 2030).

Ben (mal) sappiamo che migranti forzati ci sono da sempre e che da sempre la spinta a fuggire dipende da guerre e conflitti umani o da perturbazioni geofisiche e climatiche. Negli ultimi secoli sono cresciute le perturbazioni provocate o aggravate da comportamenti umani, negli ultimi decenni anche quelle effetto dei cambiamenti climatici antropici globali (come confermano tutti i rapporti dell’Ipcc). Inoltre, molte guerre degli ultimi decenni sono connesse ai cambiamenti climatici antropici globali, sono guerre per l’energia e per l’acqua, sono conseguenza anche di siccità e desertificazione di territori (che, a esempio, hanno colpito la Siria tra il 2006 e il 2010) e, a loro volta, le guerre distruggono ambiente e convivenza civile, desertificano il territorio con le armi chimiche e l’uranio impoverito, scacciano o uccidono generazioni di individui lavoratori manuali e intellettuali, sconvolgono il clima locale (come mostra anche la tempesta di sabbia di qualche mese fa ancora in Siria).

A causa di comportamenti umani nei paesi industrializzati da almeno quattro generazioni, stiamo obbligando persone, perlopiù sparse in specifiche aree della Terra, povere, ad abbandonare il territorio della loro vita (quando riuscissero a sopravvivere fino al momento di fuggire). Con scelte e comportamenti clima alteranti, con nostre scelte e nostri comportamenti, con scelte e comportamenti dei nostri stati (i 39 paesi dell’Annesso I del Protocollo di Kyoto) abbiamo violato, violiamo e violeremo il loro diritto di restare e la loro libertà di migrare, abbiamo creato, creiamo e creeremo «climate refugees». Si sa quali sono le aree e rischio e gli eventi inevitabili che li stanno facendo e li faranno fuggire (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, scarsità di acqua e inaridimento del suolo); si sarebbe potuto e si potrebbe intervenire molto per favorire resilienza, informare, prevenire, cooperare, assistere, prima e dopo. Non è stato fatto e non lo si sta facendo.

L’Unhcr non si occupa dei rifugiati climatici, non se ne può occupare perché la Convenzione parla di guerre e persecuzioni e, dunque, non ne ha il mandato. Intelligentemente ha messo nelle proprie linee guida di assistenza che, se non si supera il confine del proprio paese, i campi profughi possono accogliere anche profughi di disastri naturali e il loro (vasto) numero è ricompreso fra gli Internally Displaced People, costituisce una parte (minore) degli effettivi rifugiati climatici già esistenti.

Tuttavia una persona in fuga può a un certo punto, se riuscito a sopravvivere, continuare a fuggire, sconfinare e arrivare nei paesi limitrofi, attraversarli, migrare.

Molti di coloro che cercano di attraversare il Mediterraneo non sono «refugees» e richiedenti asilo, ovvero in fuga da guerre o persecuzioni politiche sul confine limitrofo al loro paese d’origine. Sono donne e uomini, circa 450.000 nei primi 9 mesi del 2015, quasi 3000 morti in mare, in fuga da conflitti civili e soprattutto disastri che fuggono, poi forse sopravvivono (per migliaia di km, attraverso il Sahara-cimitero, sfruttati), poi forse si imbarcano e, se non naufragano (Mediterraneo-cimitero),.

Fra di loro moltissimi hanno cominciato a fuggire dai cambiamenti climatici antropici globali per come si sono manifestati nel loro originario luogo di residenza (siccità, desertificazione, eventi meteorologici estremi, ecc.).

Credo sia utile distinguere i rifugiati con status riconosciuto (o riconoscibile quando chiedono asilo) dagli altri migranti forzati; e distinguere urgentemente (avrebbe dovuto essere nell’agenda in corso a Parigi, la 21° Conferenza delle Parti sul clima, ancora non c’è, prima o poi dovrà essere inserita nel negoziato climatico) i tanti generici profughi ambientali dai rifugiati climatici.

Si è costretti a fuggire da disastri di varia origine e natura. Quelli connessi ai cambiamenti climatici antropici globali hanno una «certificazione» scientifica e apposite regole nel diritto internazionale, per questo prevenire e riconoscere (anche con accordi bilaterali, anche con corridoi umanitari) i climate refugees è prioritario, pur se un dovere di assistenza riguarda tutti i profughi.

* L’autore ha scritto “Ecoprofughi”, Nda 2010, calzolaiov@gmail.com