Le vie della scrittura letteraria e del racconto per immagini hanno trovato, negli ultimi anni, se non un inedito punto di contatto, dei tratti di percorso condiviso al di fuori degli steccati di generi un tempo ritenuti di più facile consumo (come il fumetto) e della produzione per l’infanzia. Il caso di Zerocalcare è solo il più evidente, anche semplicemente per la presenza ormai abituale nelle classifiche di narrativa tout court. Può sembrare un segno dei tempi, la terra di mezzo nello scivolamento dall’età della parola a quella delle immagini, o l’indice di un abbassamento della «qualità» del lettore, che nel rapporto col libro sembra cercare una riconnessione con l’infanzia e nelle immagini una scialuppa di salvataggio per transitare sano e salvo nel denso mare del testo. Ma a smentita, almeno parziale, di queste ipotesi, basterebbe evocare, soltanto nella letteratura italiana, antecedenti notevoli nel rapporto immagine-scrittura come ad esempio l’edizione «quarantana» dei Promessi sposi, corredata delle incisioni frutto dell’intensa e puntuale collaborazione tra Manzoni e il pittore Francesco Gonin. Segno che, in qualche modo, anche il più celebre dei romanzi italiani può essere visto, sotto un certo aspetto, come «libro illustrato», e peraltro l’iconografia dei suoi personaggi è saldamente legata, ancora oggi, alle immagini di Gonin. Conviene dunque domandarsi quali prospettive possa schiudere l’integrazione tra parola e illustrazione in un momento cruciale, come quello presente, nella storia del libro.
Una risposta è data dalla recente edizione di Uomini e topi di John Steinbeck apparsa per Bompiani (traduzione di Michele Mari, pp. 420, € 40,00), con le illustrazioni di Rébecca Dautremer. Sarebbe però non solo riduttivo, ma anche fuorviante, definire questa edizione, apparsa in origine in Francia per Tishina, come una versione illustrata della classica novella steinbeckiana. Siamo invece nel territorio di una vera riscrittura per immagini, che si accompagna passo a passo al testo del premio Nobel americano. Il risultato è un intreccio di due «voci» che si chiamano e si rispondono, traendo forza l’una dall’altra e facendo risaltare, da un lato, l’austera bellezza del testo e, dall’altro, la lussureggiante inventiva delle matite di Dautremer. C’è da credere che l’illustratrice francese, autrice di libri per l’infanzia e di «rivisitazioni» grafiche di Alice di Carroll (Rizzoli 2011) e di Seta di Baricco (Feltrinelli 2016), non abbia scelto con leggerezza il testo con cui misurarsi. In Italia, Uomini e topi è un libro carico di significato nella storia dell’editoria, e la sua prima traduzione, opera di Cesare Pavese ed edita da Valentino Bompiani, una tappa fondamentale nella ricezione della letteratura americana. E ha inoltre un valore profondo la data di uscita del libro, il 1938 dell’Italia fascista, in cui il racconto antieroico di Steinbeck assumeva ancora di più il senso di un grido di protesta. Questa circostanza ha forse fatto pendere la bilancia interpretativa verso l’esaltazione dei contenuti di denuncia del testo, lasciando invece in secondo piano la sua forza simbolica e il suo disegno da parabola. E anche al di là dell’Italia, le fortune di Steinbeck sono state legate nel tempo al maggiore o minor grado di apprezzamento del suo impegno verso gli umili e i dimenticati. Ma oltre questi temi, la lingua di Steinbeck richiama l’immediatezza e l’universalità della Bibbia, e la visione edenica della terra agognata dai braccianti Lennie e George, protagonisti della novella, inscrive la loro traiettoria di (fallito) riscatto nei contorni di un’utopia spirituale non meno che sociale. Rébecca Dautremer ha dunque colto, scegliendola, le opportunità offerte da una narrazione tanto concentrata ma allo stesso tempo carica di sottotesto visionario, e ha dato risalto con i suoi pennelli e le sue matite soprattutto a questo secondo aspetto. Mentre il testo steinbeckiano avanza con incedere inesorabile e un dettato essenziale, una melodia nuda, Dautremer lo avvolge con l’armonia di disegni che sfruttano registri diversi, che vanno dal realismo minuzioso dei dettagli naturali, all’imitazione di pubblicità e fumetti d’epoca, a finti scarabocchi infantili, a «campi lunghi» d’ispirazione cinematografica.
E certamente al lavoro del cinema si richiama l’approccio di Dautremer, perché la sua riscrittura non va soltanto a esaltare un modo di interpretare il testo, ma è davvero autoriale perché lo ricrea non meno di quanto facciano un regista o uno sceneggiatore adattando una fonte letteraria. Il termine «riduzione», spesso utilizzato per indicare la trasposizione dalla pagina allo schermo, è ingannevole almeno perché nasconde il valore genuinamente creativo della traduzione di una storia da un medium a un altro. Pertanto, chi si approccerà a questa nuova edizione di Uomini e topi non ne ricaverà soltanto il piacere della riscoperta di un classico, ma l’emozione dell’incontro con un nuovo «testo», perché l’originalità nel nostro tempo passa anche, e forse in larga parte, per le vie del remaking.