Raccontano cose disparate su di lui, ma il giovane artista assediato da centinaia di fan durante l’inaugurazione della sua mostra a Treviso ha un nome e un’apparenza molto ordinarie: si chiama Joan Cornellà, che in Catalogna è quasi come dire Mario Rossi, ed è un ragazzo sulla trentina, jeans e camicia a quadri. Due settimane fa era al Treviso Comic Book Festival per presentare le tavole originali di “Mox Nox”, il suo primo libro ad apparire in Italia, pubblicato da Eris Edizioni. Eppure quello che fa e l’effetto del suo lavoro sul pubblico sono del tutto straordinari. Più di un milione di like su Facebook, dove le sue storielle monopagina composte da sei vignette, senza testo, tinte di un umorismo caustico e spietato, immediate e perturbanti, trovano il loro ambiente naturale.

Secondo quello che racconti Joan, la tua biografia è piuttosto confusa: come hai iniziato a disegnare?

Joan Cornellà: «È vero: sono stato attore pornografico per qualche anno, ma già da piccolo disegnavo. Poi ho studiato nella facoltà di Bellas Artes e quando ho finito ho deciso di dedicarmi al disegno come professionista. All’inizio c’ho messo un po’ per capire quale direzione prendere, poi ho iniziato a caricare su Facebook quello che facevo e ad affinare il lavoro secondo il gusto del pubblico. »

Le tue storie non hanno testo e si svolgono in soli 6 quadri. Nonostante questo hanno un fortissimo impatto sul pubblico. Come hai raggiunto questa sintesi?

J.C. «Ho sempre pensato di essere molto pigro, quindi poco a poco ho eliminato tutti quegli elementi che mi disturbavano e che reputavo inutili. Con meno vignette non ci sono problemi di pagina e ci si può permettere di pensare di più all’idea che alla forma. Così mi sono avvicinato sempre di più all’essenzialità, fino a giungere all’eliminazione del testo e alla sintesi di una storia solo attraverso immagini. Se da una parte questa modalità mi incasella in uno schema, togliendomi libertà, dall’altra rende il lavoro più leggero e riconoscibile, creando una vera e propria marca. Certo all’inizio ero più libero di sperimentare, e adesso dover essere sempre lo stesso a volte è noioso…»

È per questo che ti piace giocare con l’identità?

J.C. «A volte mi risultava duro apparire in pubblico; poi all’improvviso sembrava che tutti mi volessero intervistare. Ma i giornalisti tendono a farti sempre le stesse domande quindi spesso ho inventato storie sul mio conto che nemmeno io ricordo».

Durante il vernissage della mostra venivano distribuite delle maschere con la faccia del tuo personaggio standard; in questo senso Joan Cornellà potrebbe essere chiunque. Del resto è già successo a qualche presentazione… giochi anche con il falso, visto che il tuo lavoro vive molto sulla rete?

J.C. «Sì, assolutamente. È successo che abbia inviato amici al posto mio a presentare i miei libri. Una volta su Instagram un tipo si fece un account a nome mio, fingendosi Joan Cornellà…per un momento ho pensato che la gente potesse iniziare a non fidarsi di me. Adesso è più difficile, circolano più foto della mia faccia».

Con un candore e una semplicità infantili crei paesaggi ordinati e rassicuranti dove si inscenano drammi violenti ed equivoci perversi che, su questi sfondi rigorosi e lineari, risultano ancora più esacerbati e senza senso. È così come leggi la realtà?

J.C. «Costruisco proprio così l’immagine, ma per me rimane un mondo fittizio, separato dalla realtà. Quello che dipingo non rispecchia un ordine personale, non è il mio modo di vedere il mondo. In parte è una provocazione, un codice, un accesso, un modo per arrivare a raccontare quello che voglio. Quello sulla carta è però un mondo del tutto artificiale, con personaggi che sorridono in continuazione, per niente umani, senza psicologia».

Difatti nonostante amputazioni, inganni e sangue, riesci a far ridere il lettore presentando morte e violenza. Come raggiungi questo esorcismo?

J.C. «Grazie alla forma. Per poter raccontare cose brutte, bisogna trovare un modo gradevole. Prima facevo cose tecnicamente molto diverse, ma la gente non si avvicinava a quel tipo di linguaggio. Solo così riesco a parlare di morte, con un linguaggio visivo più attraente. Se lo facessi con un altro stile non funzionerebbe».

C’è una certa contraddizione tra quello che succede nelle tue storie, noir e pessimista, e il Joan Cornellà autore, ben lontano da questa visione oscura.

J.C. «Mi piace giocare con il personaggio dell’autore, dell’artista del XX secolo, presuntuoso e irraggiungibile».

La rete ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del tuo lavoro.

J.C. «Certo. È tutto molto più rapido. Con Internet si accorciano le distanze con il pubblico e ho un feedback diretto. Quando si pubblicava solo sulla carta, avere questo riscontro era più difficile. Credo anche che parte del successo accada per caso, il fatto è che ora sento che la marca esiste, perché so cosa piace al pubblico e cerco di soddisfare la sua aspettativa».

Insieme alle storie monopagina hai esposto anche ritratti di personaggi singoli, strani animali o umani accomunati da dettagli perturbanti e assurdi. Come si colloca questo filone nella tua produzione e da dove nasce?

J.C. « Dalla voglia di fare cose diverse. Sono lavori più recenti, nati dopo molto tempo passato a disegnare storie. Tra l’altro è un buon modo per vendere la mia opera. Dipingo tutto a mano».

Come hai scelto il titolo del libro, Mox Nox?

J.C. « È latino e vuol dire “presto arriverà la notte”. In realtà mi piaceva il suono, però capisco che si potrebbe interpretare come l’approssimarsi di qualcosa di oscuro, in netto contrasto con l’aspetto del libro…Insisto, non era mia intenzione trovare un titolo sensato».

Da dove viene il tuo gusto per il nonsense, ha a che fare con la cultura teatrale inglese?

J.C. « Il nonsense è tutto. Per me viviamo nella casualità assoluta. Vero è anche che ammiro molto i Monty Python, l’humor inglese e il teatro di Beckett. Sì, in effetti nelle interazioni dei miei personaggi ci sono delle analogie con gli sketches beckettiani, ma anche questa ispirazione non è intenzionale».

Ci sono invece autori del mondo dell’illustrazione dai quali ti senti ispirato?

J.C. « Sì, se non avessi letto Cowboy Henk, del belga Herr Seele, le mie storielle non sarebbero mai esistite».

Libro vs mostra. Come preferisce essere fruito Joan Cornellà?

J.C. «I libri mi piacciono moltissimo, tanto che alle mostre finisco sempre per guardare di più i cataloghi che le opere esposte. Riconosco però che dipingendo a mano, la stampa non rende mai l’emozione dell’osservazione dal vero della tavola. C’è un altro motivo che mi spinge a preferire le mostre ed è quello strettamente economico: solo esponendo e vendendo i miei lavori riesco a vivere. È un vero peccato, ma non credo di rivelare nessun segreto dicendo che l’editoria è in crisi».

Credi che i tuoi libri precedenti (Abulio, 2010 e Fracasa Mejor, 2012) verranno pubblicati in Italia?

J.C. «Sarebbe una bella sorpresa, ma non credo che ci sia molto interesse verso quel tipo di prodotto. Ho molto materiale inedito, che andrà sicuramente nel prossimo libro. In primavera la storica casa editrice statunitense Fantagraphics pubblicherà “Mox Nox” e stiamo già parlando di un secondo volume. È la casa che ha pubblicato Robert Crumb, un mostro sacro, quindi per me si tratta di un sogno che diventa realtà. Adesso davvero, potrei anche morire.

Sono circa due anni che lavoro così

Le vicende di personaggi con spiccate ambiguità fisiche o esplicitamente irregolari e devianti vivono su campiture I colori pastello e le campiture nette rimandano a un immaginario ordinato e conformista.

È una marca stilistica che aggiunge instabilità al tuo linguaggio, profondamente disturbante

Equivoci, false apparenze, giochi di campo che svelano paesaggi umani e creature diverse da quelle rassicuranti che appaiono a prima vista.

le immagini sono state scomposte per motivi tecnici, appartengono a una sola pagina