Una chitarra suona nel verde del campus mentre alcuni studenti scherzano, leggono un libro, mangiano qualcosa durante un momento di pausa dalle lezioni. Suona «Dixie», la canzone simbolo del Mississipi e dell’Università locale. Non solo parole e musica, è l’inno di un popolo che ha dovuto sconfiggere prima se stesso e le sue paure per entrare nel mondo moderno. Per accettare ogni essere umano. E in quel campus, che trasuda di storie, c’è voluto parecchio tempo per capirlo. Paure del ‘diverso’ palesi anche quando si sventola la bandiera della «Confederazione’ con la croce blu in campo rosso e si grida «The south will rise again». Un grande aiuto all’integrazione l’ha dato lo sport: il football americano che è una religione, ma anche la pallacanestro. Un team senza fuoriclasse dove, negli ultimi tempi, ha spiccato la faccia indemoniata di Marshall Henderson, guardia dal tiro mortifero e vera icona per l’ateneo, un bianco che domina nel gioco dei neri. Gioca con la canotta 22 dei Rebels di Ole Miss University che altro non è che Mississipi University.

Nel campus di Oxford si è scritta una delle pagine più cruente e sanguinose della storia contemporanea americana. Il 1 ottobre 1962 James Meredith diventa ufficialmente uno studente di Ole Miss: tutto normale, se non fosse che è il primo ragazzo di colore iscritto all’ateneo dopo una lunga battaglia legale per i diritti civili. Già aveva provato ad entrare nell’università in precedenza ma sempre senza successo. Fu grazie all’intervento del presidente J.F. Kennedy e di suo fratello Robert (all’epoca Ministro della Giustizia) che Meredith riuscì ad iscriversi.

Il giorno dell’infamia arrivò il 30 settembre, quando avvenne una vera battaglia notturna tra gente del posto, studenti e l’esercito federale mandato da Washington. Quella battaglia lasciò sul campo dell’ateneo uno studente e il giornalista francese Paul Guihard. Una storia tremenda che ha lasciato un segno indelebile nell’università ed ha ispirato Bob Dylan nella canzone «Oxford Town».

Quell’anno sciagurato fu il migliore nella storia del college che nell’amato football americano chiuse imbattuto; una squadra che ricompattò l’ambiente scosso ancora dai tumulti di quel vergognoso settembre di sangue, lacrimogeni e violenza inaudita. Giocare per Ole Miss, dunque, è quasi una missione anche per il nome di battaglia del team, «Rebels», scelto nel 1936 per indicare la differenza di stile con gli altri college.

Henderdson incarna a pieno lo spirito ribelle di chi vive la realtà complicata di quello spicchio di America. Forse, anche per questo, è una leggenda ad Ole Miss. Lo scorso anno diventa una stella assoluta nel firmamento della Ncaa (il torneo di basket universitario americano). Segna caterve di punti, diventa uno specialista del buzzerbeater (il tiro a fil di sirena che decide le partite), è un personaggio per i suoi modi poco tranquilli di festeggiare. Di sé ama dire: «Gioco in modo diverso, col cuore per Ole Miss. Mi spiace se a qualcuno non piace come sono, ma non cambierò. È incredibile come la gente prenda seriamente tutto questo, per me è un gioco e lo vivo come un divertimento». Ad Auburn, Alabama, dopo aver chiuso la partita con l’ennesimo canestro decisivo, si scaglia contro la tifoseria di casa e viene salvato dal ‘linciaggio’ grazie al pronto intervento dei compagni che lo portano negli spogliatoi.

Fin qui sembra una storia come le altre, il classico talento osannato dai media in cerca di un nuovo eroe bianco da idolatrare, col sogno di giocare nella Nba. Ma la storia devia spesso il suo corso e capita che il ragazzo bianco, nel gioco dei neri, non superi il primo controllo antidoping. Poi il secondo e venga messo fuori squadra a tempo indeterminato. Cocaina e marijuana: sono queste le sostanze che inchiodano Henderson e aprono uno squarcio nel cuore della gente del Mississipi. Il 10 luglio si lascia scappare un tweet enigmatico dove scrive: «Sarà un’interessante ‘bianca donna del mercoledì’» che riletto qualche giorno dopo sa molto di confessione sull’uso della cocaina. Già qualche anno prima era finito nei guai per aver acquistato 57 grammi di marijuana ma l’aveva scampata svolgendo servizi socialmente utili. Stavolta no, stavolta c’è l’esclusione dai Rebels. Lui non ha fatto alcun commento ufficiale. Il ragazzo bianco che segna da ogni angolo del parquet è nel baratro. Coach Kennedy si è limitato a dire: «Adesso deve solo pensare a lavorare duro su se stesso per tornare il ragazzo che tutti ci aspettiamo». La storia di Henderson sembra un copione già visto in un’America che ci mette poco a osannarti e ancora meno a buttarti nel fango.

In soccorso del numero 22 di Ole Miss arriva un personaggio che ha una storia simile ma decisamente più drammatica. È Chris Herren l’uomo chiamato ad aiutare Marshall, a servirgli l’assist per rilanciarsi, per tornare a vivere. Herren, ex giocatore di basket, anch’egli guardia, bianco, talento immenso ai tempi del liceo e del college (Fresno State University agli ordine di coach Jerry «The shark» Tarkanian), un futuro roseo in Nba se non fosse… risultato spesso e volentieri positivo all’antidoping (anch’egli alla droga, cocaina ed eroina). L’eroina la conobbe nella sua fugace e veloce apparizione in Italia, era stato chiamato alla Fortitudo Bologna: in Italia durò il tempo di fumarsi una sigaretta ma alla stazione centrale del capoluogo emiliano comprò la sua prima dose. La cocaina l’aveva già sperimentata ai tempi dei Boston Celtics che gli diedero un’occasione incredibile di rilanciarsi tra i professionisti.

Occasione buttata via da Chris che, poi, iniziò a girovagare per il mondo. Tutti i guadagni buttati in alcol e droga. Smette di giocare, non ha un dollaro in tasca, finisce a vivere per strada visto che la moglie l’aveva lasciato. Rischia di perdere la vita due volte, in un caso il cuore si ferma e viene dichiarato clinicamente morto per alcuni secondi. Causa? Overdose naturalmente. È nel fango, ma si rialza e inizia ad andare in giro per le scuole a spiegare ai più giovani come non rovinarsi la vita. Nel frattempo allena anche una squadra di basket giovanile nella sua città natale di Fall River, in Massachussets. Ora Herren corre in aiuto di Henderson. Un’ex stella del basket che cerca di ridare la luce ad un altro giocatore di basket. Storia strana e destini che si incrociano. «Non si può minimizzare il fatto che Marshall sta mettendo a repentaglio il suo futuro – ha dichiarato Herren in un’intervista – È tragico, per me, vedere la sua situazione sapendo quello che ho passato e fatto io in precedenza. Ha bisogno di capire il motivo che l’ha indotto ad assumere queste sostanze: è importante per lui, per la sua famiglia ed il suo futuro. Il prezzo da pagare, quando sei così famoso, è anche questo: è convivere con la pressione. Ecco perché deve ritrovare equilibrio e circondarsi di persone che hanno il suo stesso sogno».

Hanno scelto proprio Chris Herren per cercare di togliere Marshall Henderson dalla stessa strada. Stessa mano, stesso ruolo, stesso colore della pelle, stesse speranze, stessi vizi, stessi dolori, stesse lacrime. Due vite talmente uguali che non potevano non incontrarsi nelle verdi praterie dell’America del Sud. Sullo sfondo di questa storia c’è sempre quella chitarra e quella voce calda che canta «Dixie«. Chissà quante volte Marshall la ascolterà sperando di poterla sentire ancora al CM Smith Coliseum. Insieme al rumore del nylon che si gonfia ad ogni sua tripla.