«Il nostro obiettivo è che non ci siano più persone da salvare. Mediterranea è il tentativo di non limitarsi a riparare i danni fatti da altri, ma smuovere le coscienze e avere un impatto politico concreto e generale». Jasmine Iozzelli ha 24 anni, studia antropologia all’università La Sapienza di Roma e il 18 marzo ha partecipato al salvataggio di 49 persone con la nave Mare Jonio. È uno dei 21 membri dell’equipaggio della missione, divisi tra l’imbarcazione principale e quella d’appoggio, la Raj. Insieme compongono un mosaico di quella parte di società che non resta ferma davanti alla strage di migranti. Ci sono volontari e attivisti, un medico e un’avvocata, un’infermiera e un mediatore, skipper e marinai di lungo corso.

«Mi hanno colpito le condizioni in cui viaggiavano le persone – racconta Daniele De Mitri, 32 anni, skipper e attivista del centro sociale Esc – Più che un gommone era un canotto gigante, sovraffollato, con un motore troppo piccolo. Erano tutti scalzi e senza coperte, con ustioni per gli sversamenti di benzina dalle taniche. Un’ora dopo che li abbiamo trovati è arrivata una burrasca. Non avrebbero avuto scampo, nel migliore dei casi sarebbero stati riportati in Libia». Secondo qualcuno si tratta di un «porto sicuro», ma l’escalation militare di questi giorni, i rapporti che arrivano dai centri di detenzione e le storie di chi riesce a fuggire dimostrano ben altro. Lo conferma il medico della missione, Guido Di Stefano, 27 anni: «Avevano segni compatibili con torture: shock elettrici, frustate.

Hanno raccontato di essere stati venduti come schiavi». «In precedenza non avevo fatto tanta attività politica – continua Guido – È la prima volta che mi sono sentito davvero utile. È nato in me il bisogno di continuare: non è possibile che a pochi chilometri dall’Italia esista ancora la schiavitù». «Mi ha fatto molta impressione la motovedetta libica, la prova visiva che l’Italia sta usando soldi destinati alla cooperazione per sostenere autorità che sono parte del problema», afferma Lucia Gennari, 32 anni, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e dello sportello legale Esc Infomigrante.

Tra i sette marinai professionisti c’è Giovanni Viva: il «primo di coperta», la responsabilità più alta dopo il capitano. «Lavoro in mare da otto anni, da quando ne avevo 19 – dice Giovanni – Il progetto di Mediterranea mi è interessato subito: volevo vedere con i miei occhi com’è la situazione in quel pezzo di mare. È un’esperienza che mi ha cambiato: non sono uno che si emoziona facilmente, ma incontrare quelle 49 persone è stato molto forte emotivamente». Mediterranea non è una Ong, preferisce definirsi attraverso una neo-sigla: Ang, azione non governativa. Rende meglio la molteplicità delle esperienze che compongono la piattaforma, per mare e per terra. «La dialettica tra la nave e le comunità che sui territori sostengono il progetto è fondamentale – dice Giulia Sezzi, studentessa di filosofia e attivista di Ya Basta Bologna e dei centri sociali Làbas e Tpo – Durante il salvataggio questa dinamica è esplosa. La radicalità dell’azione in mare ha avuto una grossa eco a terra. Gli attacchi e gli insulti di chi remava contro non sono bastati. Tantissime persone hanno dimostrato di essere dalla nostra parte».

Della ciurma della Mare Jonio fa parte anche un ragazzo greco dal nome che rimanda ai racconti mitologici degli Argonauti. Iasonas Apostolopoulos è nato ad Atene, ma nel 2015 si è trasferito su una spiaggia dell’isola di Lesbo. «In quel momento non c’erano Ong e ogni settimana arrivavano migliaia di rifugiati. Abbiamo creato una cucina solidale e iniziato a distribuire cibo. Il 28 ottobre 2015 abbiamo assistito impotenti a un naufragio: decine di persone morte annegate davanti ai nostri occhi. Abbiamo capito che ci serviva una barca». Così Iasonas e gli altri hanno rimediato un gommone e iniziato a fare delle operazioni di salvataggio davanti alle coste. L’accordo tra Ue e Turchia ha fatto crollare il numero di arrivi, perciò il ragazzo ha preso un aereo diretto in Italia e si è imbarcato sulla nave Aquarius, con Sos Mediterranée e Medici senza frontiere. «Quando l’hanno sequestrata sapevamo che c’era ancora molto da fare. Poi ho sentito di Mediterranea e ho chiesto di partecipare, avevo esperienza e ne condividevo l’approccio: è fondamentale continuare a parlare di Libia, dire che non è possibile rimandare là le persone».

«Io a Mediterranea ci sono arrivato in modo un po’ diverso: ho cercato su internet la posizione della nave attraverso il segnale Ais, sono andato al porto dove stazionava e sono entrato. Sul ponte ho incontrato Luca Casarini e gli ho detto che volevo dare una mano». Claudio Anichini è uno skipper esperto, con un passato di militanza nel Centro popolare autogestito Firenze Sud e poi diversi anni di lavoro in mare. È diventato rapidamente il comandante della barca a vela d’appoggio, dove si trova la maggior parte dell’equipaggio operativo. «Sono partito nel 2013, ma nell’ultimo periodo andare per mare mi pesava, come uomo e come marinaio – dice – Non potevo continuare a portare le persone in vacanza, in acque lontane, mentre al centro del nostro Mediterraneo si continuava a morire, mentre il diritto del mare veniva stravolto con questa violenza». È diverso vedere le onde in televisione, dalla spiaggia o dalle acque internazionali, lontano da qualsiasi costa. «La sicurezza in mare è la cosa più importante, è ciò che distingue i professionisti. Questa sicurezza deve essere garantita a tutti. Sono fiero delle mie scelte e di quello che abbiamo fatto insieme. Ripeterei tutto. Non ho paura delle inchieste, perché abbiamo fatto la cosa giusta».

Nessun membro dell’equipaggio di Mediterranea ha rimorsi o timori. Anzi. «Quest’esperienza mi ha insegnato che anche quando le cose sembrano andar male – afferma Daniele – anche quando ti senti circondato da una sensibilità rancorosa, anche in quella situazione si può rompere il cerchio e fare qualcosa di concreto per cambiare la situazione».