Il richiamo a sensibilizzarci maggiormente sul tema acqua vale in particolar modo per l’Italia, dove a fronte di una marea di problemi, sono alti i consumi e bassa la consapevolezza.
Siamo i primi in Europa per prelievi di acqua a uso potabile: 419 litri per abitante al giorno, quando nel vecchio continente il consumo medio è sui 200-250 litri. Secondo l’OMS utilizziamo il 30-35% delle nostre risorse idriche rinnovabili, con un incremento del 6% ogni 10 anni. Una tendenza che, unita a urbanizzazione, inquinamento ed effetti dei cambiamenti climatici, come le sempre più frequenti e persistenti siccità, mette a dura prova l’approvvigionamento idrico della penisola.

Ma questo sembra non turbarci più di tanto: secondo una recente indagine della società di ricerca Ipsos, solo 2 italiani su 10 ritengono che la scarsità d’acqua sia un problema generalizzato, e solo il 12 % si è definito preoccupato dalla tematica acqua nel presente: probabilmente gli è sfuggito il parere del World Resources Institute, secondo il quale l’Italia nel 2040 sarà in una situazione di stress idrico molto critica. Il discorso sull’acqua non fa presa quanto quello sulle problematiche legate ai combustibili fossili, perché è una risorsa che nel nostro paese ha (ancora) un costo contenuto e non manca (quasi) mai. Di fatti siamo anche dei gran spreconi: 105mila litri al secondo, 9 miliardi di litri al giorno. La causa di questa perdita enorme ed imperdonabile, non è tanto il consumo irresponsabile, comunque da correggere anche se solo per imperativo etico, ma soprattutto la rete di distribuzione che, fuor di metafora, fa acqua da tutte le parti.

A descrivere bene come avvengono gli sprechi lungo la rete idrica è l’ impietoso report “ Acqua in rete” appena realizzato da Legambiente. I dati elaborati raccontano come l’acqua che preleviamo non venga trattata adeguatamente e in modo sostenibile, ma spesso dispersa e sprecata, con un gap tra acqua immessa nelle reti di distribuzione e acqua effettivamente erogata che va da una media del 26% nei capoluoghi del Nord al 34% in quelli del Centro Italia, fino al 46% nei capoluoghi del Mezzogiorno. Tra le città metropolitane, dal 2014 al 2019 soltanto Bologna, Firenze, Milano e Torino si sono mantenute sotto il dato medio nazionale del 37%. C’è ancora molto da fare in città come Bari, Cagliari e Roma, costantemente rimaste al di sopra della media. Sempre più rilevanti poi le criticità legate alla disponibilità della risorsa idrica in regioni dove sussistono carenze gestionali e strutturali, i cui effetti saranno resi sempre più gravi dai cambiamenti climatici. Secondo dati Istat, nel 2019 le misure di razionamento dell’acqua per l’uso domestico hanno interessato nove città italiane, principalmente in Calabria, Campania, Abruzzo, Sardegna e Sicilia, e in alcuni centri urbani è da ormai dieci anni che la loro attuazione si rende ormai necessaria.

Anche in termini di monitoraggio e tutela della qualità delle acque non siamo messi molto bene. Rispetto ai livelli di inquinamento, abbiamo elevate percentuali di “non classificato”. Ci sono infatti sconosciuti (per il quinquennio 2010-2015) lo stato chimico del 17% e quello quantitativo del 25% delle acque sotterranee, lo stato chimico del 18% dei fiumi e del 42% dei laghi italiani. Non ancora monitorato e classificato lo stato ecologico del 16% dei fiumi e del 41% dei laghi. Informazioni basilari che scarseggiano soprattutto al Sud, dove lo stato idrico di è per più della metà ignoto, e nel caso di Calabria e Basilicata, si raggiunge anche il 100%. Delle sviste non da poco se teniamo conto del fatto che non abbiamo ancora completato la rete fognaria e reso efficienti gli impianti di depurazione. Si registrano infatti ancora 939 agglomerati non conformi alle direttive europee, per quasi 30 milioni di italiani interessati dai relativi disagi. Tre agglomerati su quattro in infrazione si trovano nel Mezzogiorno o nelle Isole, e generano oltre il 60% dei carichi non depurati.

Siamo il paese dell’inquinamento da Pfas in Veneto, della contaminazione della Valle del Sacco, dei reflui sversati nel fiume Sarno e nel lago d’Orta e una tale situazione non può non mettere in allarme. In questi giorni lo sono in particolar modo il territorio piemontese, e in particolare quello alessandrino che ha dovuto prendere atto della concessione, da parte della Provincia di Alessandria, della autorizzazione a Solvay per l’aumento della produzione proprio della sostanza perfluoroalchilica (PFAS) cC6O4. Una delibera che condona una sostanza che sta già inquinando suolo ed acqua da anni, denuncia Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, e inaccettabile per la mancanza di informazioni indispensabili per la tutela della salute dei cittadini e che l’associazione è decisa ad impugnare.