Filippine, un futuro non troppo lontano: è il 2034, il sole ha smesso di sorgere dopo una violenta eruzione di un vulcano, la terra vive in una notte senza fine come la pioggia che la ricopre. Questa Manila somiglia alla Los Angeles di Blade Runner anche se non ci sono «replicanti» che parlano sui muri, solo uccelli-droni usati per controllare la popolazione, a caccia di potenziali nemici, e ragazze a pagamento che divengono robot senza cuore, senza un gesto di affetto, allenate all’ indifferenza. L’esercito è ovunque, arresta, uccide, gli obiettivi sono i poveri, le comunità a «rischio», i preti che li aiutano, chi si occupa dei bambini in strada, chi prova a resistere al dittatore che governa il Paese circondato da «fedelissimi» più spietati di lui con la segreta ambizione di eliminarlo.

UN VIRUS chiamato «Dark Killer» ha sterminato anni prima metà degli abitanti del sud est asiatico: è stata solo una casualità? O invece non si è trattato di un colpo dei governanti che stanno ora pianificando una nuova eliminazione di tutti coloro considerati un fastidio per i loro piani? The Halt è il nuovo film di Lav Diaz, presentato alla Quinzaine des Realisateurs, bianco e nero contro ogni effetto «malinconia» in cui il regista filippino, Leone d’oro con il magnifico La donna che è andata via (2016), ritrova le tensioni che percorrono la sua poetica sin dai primi film, intrecciandovi variazioni che illuminano nuovi e attualissimi conflitti. Al centro c’è sempre il suo Paese, le Filippine, luogo geografico e politico universale che rende laboratorio avanzato del nostro tempo tra passato coloniale e post coloniale, presente sovranista e neoliberista, dittatori di ieri e di oggi, il ruolo dell’«occidente» democratico, il suo sguardo sull’altro, le sue complicità – o quantomeno la mancata assunzione di responsabilità.

LA STESSA MOSTRATA da grande parte delle persone in quel Paese che, come dice stanca una anziana donna «Non ha più l’anima» e nemmeno la volontà di ricordare. «Siamo cittadini di un paese specifico con una realtà specifica. Nessun artista è un isola ma il suo compito è quello di confrontarsi col proprio tempo» dice Joel Lamagan, attore, regista che in The Halt interpreta il vecchio dittatore ormai folle in un cast che ritrova gli attori abituali del regista come Hazel Orencio, nel ruolo della sua crudele braccio destro, o Piolo Pascal. Ogni figura, quasi archetipica, esprime un rimando alla storia e all’attualità delle Filippine, dalla dittatura di Marcos fino all’oggi di violenza, miseria e repressione, coi massacri dei paramilitari nelle favelas coperti dal governo, il sostegno asservito degli Stati uniti, la migrazione obbligata di chi non può vivere lì, la caccia al pensiero che dissente. E, appunto, da quella specifica realtà di allarga al mondo. Martha e Marissa, militari di alto grado sono amanti, a loro tocca il compito di eseguire gli ordini del capo, che vive solo, insieme ai suoi cactus nel palazzo blindato del potere mentre la famiglia è al sicuro in Svizzera. Marissa ha dei rimorsi Marta è implacabile, pensa di salire lei un giorno al comando. The Hook è invece un clandestino ex militare, ex musicista iinsieme a un gruppo cerca di rovesciare il dittatore. Lui si nasconde nei margini, tra i mendicanti, ha solo una possibilità di riuscire e i suoi occhi malati hanno distrutto la sua mira infallibile. Baby Love è un robot dell’amore, la più desiderata. Ci sono poi una giovane donna che ha rimosso il suo passato e una psicanalista che l’aiuta, entrambe sopravvissute allo sterminio del virus, hanno perduto familiari, amici, amori, la psicanalista è anche una voce critica contro il regime, da eliminare…

COME SI REGGE una dittatura? Quali sono le sue strategie e i suoi strumenti di seduzione? E come combattere? Se la fantascienza nelle sue visioni distopiche di un futuro è stata la lente privilegiata in cui dilatare i conflitti del tempo, Lav Diaz si appropria del genere a partire proprio da questa sua potenza sovversiva che rende epica, nelle quasi cinque ore di film – di cui non si avverte mai un momento di stanchezza. Questo paesaggio, che non è realista nel suo essere reale, e le figure che lo abitano, interrogano senza effetti speciali il nostro mondo e soprattutto il cinema, o l’arte per intero, la sua necessità e le sue forme di rappresentazione. Noi spettatori siamo immersi in quell’oscurità spiazzante di un horror che è insieme strano e familiare, di un futuro che è già presente, che nel qui e ora si realizza, la cui immagine è come la sintesi delle infinite immagine replicate ogni giorno.

HOOK suonava un rock quasi punk, sberleffo a ogni potere, ora nella «cospirazione» capisce che la resistenza (o resilienza?) è ripartire da «piccoli» obiettivi: lavorare coi ragazzini di strada per esempio invece di chiudersi in altissime e astratte teorie, scegliere la pratica quotidiana, l’educazione. E poi? Cosa chiedere alle proprie immagini? L’astrazione come forma di «verità» nel profondo, il rapporto col proprio tempo, una consapevolezza che si crea in chi guarda. Siamo qui, l’universo scuro, sospeso nel quale il movimento del film ci immerge è come un sogno, o un incubo che disvela la natura dell’umanità oltre e dentro lo schermo, fine della verità, fine della morale. E il cinema? Può essere niente o può reinventare tutto, per Diaz è ancora il luogo del possibile, di una sfida senza compromessi, di un pensiero capace di mettersi in gioco.