Il lavoro rurale può essere un’esperienza molto personale e intima, spesso fatta di tentativi, incognite, scoperte anche casuali. Semi rurali (www.semirurali.net) nasce dall’iniziativa di persone che hanno pensato di mettersi insieme per uscire dalle loro realtà locali e condividere questo patrimonio. Roberto Bocci è il direttore tecnico della rete formalizzata nel 2007.

Quali sono le attività principali portate avanti dalla rete?

Essendo il nostro un processo sociale più che un progetto specifico, siamo passati da un periodo in cui la nostra parola d’ordine era conservazione, una fase in cui ci siamo dedicati al tema della tutela della diversità biologica in agricoltura, a uno in cui è innovazione. Con il supporto del mondo scientifico, ci stiamo concentrando sulla ricerca partecipata allo scopo, ad esempio, di migliorare la produzione di varietà per l’agricoltura biologica. Da alcuni anni anche a livello accademico si sottolinea l’importanza di avere varietà specificatamente prodotte per questi sistemi agricoli, ma anche con una maggiore diversità. In relazione a questo sono partite delle sperimentazioni in Europa che noi abbiamo portato anche in Italia: assieme all’Università di Firenze abbiamo iniziato a lavorare sulle popolazioni di frumento, gruppi di varietà non uniformi fra loro, perché frutto di incroci di piante al loro volta diverse. L’eterogeneità genetica fornisce a questi gruppi di piante la possibilità di evolversi, adattandosi sempre meglio a diverse condizioni di clima, di terreno, di tecniche agronomiche. Queste popolazioni sono state distribuite in tutta Italia e i coltivatori le hanno adattate alle diverse situazioni. Se ci pensiamo, è un po’ quello che succedeva cento anni fa, quando erano le piante che si dovevano adattare all’ambiente e non il contrario come adesso, dove gli ambienti vengono chimicamente resi tutti uguali. Questa ricerca permette di fare un lavoro di riacquisizione di competenze che erano andate perse adattandosi a prendere semi omogenei sulla quale non si compie nessuna osservazione. I progetti prevedono anche molte visite sul campo, durante le quali gli agricoltori hanno la possibilità di osservare gli effetti di questa biodiversità. Ciò consente di riattivare l’intelligenza agricola e ulteriori percorsi di ricerca. L’uso delle popolazioni in agricoltura può rappresentare anche una strategia di risposta ai cambiamenti climatici.

Questo filone di ricerca non si limita ai cereali.

Le innovazioni sono state collaudate anche su fave, fagioli, pomodori, broccoli, sempre con questo sistema virtuoso volto a creare un ponte tra il mondo della ricerca e le pratiche agricole. Per esempio, nell’ambito del progetto Liveseed abbiamo attivato quattro sperimentazioni sul pomodoro. Una di queste aziende si trova nel parco del Pollino in Basilicata, dove quest’estate si è svolta la selezione partecipativa delle popolazioni: una vera e propria attività di valutazione di parcelle di campo con agricoltori, tecnici e trasformatori che esprimono il proprio giudizio su ciascuna parcella basandosi sulla propria esperienza professionale e sul proprio intuito.
Dal punto di vista delle politiche agricole in questi anni qualcosa è stato fatto per sostenere la biodiversità e l’agricoltura contadina? Cos’altro c’è da fare?

Le nostre attività possono avere una ricaduta anche in ambito legislativo e il progetto sulle popolazioni è un esempio. Le leggi italiane ed europee stabiliscono che è consentita la vendita di sole varietà omogenee, quindi la diffusione delle popolazioni sarebbe stata illegale. Il lavoro che abbiamo fatto sia in Italia che a livello europeo ha fatto si che il parlamento europeo nel 2014 ha varato una deroga di 5 anni alla legge in modo tale da rendere legale la diffusione delle popolazioni, allo scopo di capire i suoi effetti e costruire una eventuale nuova legislazione. Questo tipo di ricerca è fondamentale per migliorare qualità e produttività senza ricorrere ad agenti chimici. Questo non è solo un vantaggio per i contadini del biologico, ma anche per i cittadini, che arrivano a consumare un pane e una pasta che sono più buoni e sani.

Come siamo messi in Italia rispetto al resto dell’Europa?

In Italia siamo messi bene dal punto di vista delle pratiche: nel nostro paese esiste ancora un’agricoltura tradizionale vivente e non museale. Il quadro legislativo però è scoraggiante. Esiste una legge nazionale sulla biodiversità agricola che ha burocratizzato il sistema: non sostiene le pratiche dal basso, bensì le crea dall’alto, e questo non funziona. I programmi di sviluppo rurale consistono nel classico finanziamento a pioggia, che non tiene conto del tipo di progetto. Perciò non favorisce lo sviluppo di una visione per la costruzione di un sistema territoriale nuovo. I nostri tentativi di ottenere dei cambiamenti legislativi in Italia sono sempre andati a vuoto. Da questo punto di vista ci troviamo molto meglio nel dialogo con Bruxelles: speriamo che possa funzionare da motore anche per il nostro paese.

Un altro ostacolo, lo sappiamo, è rappresentato dal mercato: difficile essere competitivi in termini di prezzi con prodotti industriali. Come affrontare questo tema?

Noi ci stiamo dirigendo verso due modelli di consumo: quello low cost, praticato da chi non si può permettere di comprare altro, poi un modello più costoso, per i consumatori con maggiori risorse economiche: a loro è possibile proporre un prodotto differente; il problema è che come sta avvenendo ora il tema della biodiversità, una volta raggiunto il consumatore, assume un interesse commerciale. Ciò determina l’ingresso di soggetti più forti ed il rischio per i produttori piccoli e locali è sempre quello di finire schiacciati; tutta la fatica fatta per creare consapevolezza, competenze, qualità , diventano inutili. La Solina fornisce un esempio: questa varietà di grano tenero veniva coltivata da 300 anni a questa parte in Abruzzo, tra i 600 e 700 metri, resiste anche alla neve. Ora è diventata famosa e quindi ha raggiunto un interesse commerciale, i grandi marchi sono interessati alla sua coltivazione anche fuori dall’areale di produzioni. Ma coltivata in un altro ambiente diventa innanzitutto un’altra cosa, perché l’ambiente plasma la varietà. Inoltre, se viene coltivata a 100 mt di altezza i costi sono minori e può essere immessa sul mercato a un prezzo inferiore: costa di meno, ma è diventata un’altra cosa.