«Che cos’è il populismo? Se me lo chiedi non lo so, se non me lo chiedi lo so». Questa breve formula potrebbe riassumere perfettamente la confusione che attualmente avvolge il concetto di populismo. Forse, qualcuno afferma, converrebbe liquidare il termine, data l’ambiguità che oramai ha raggiunto. Ma, come ricorda il docente di storia latinoamericana all’università di Bologna e di Buenos Aires Loris Zanatta nell’intervista avvenuta tra la città emiliana e i nodi della Rete, di populismo si parla e si continuerà a parlare a lungo: «più si maledice la parola, più ricompaiono curiosi fenomeni storici per definire i quali non si trova di meglio. Tanto vale prenderla sul serio e ragionarci sopra».

Nelle sue opere emerge la possibilità di identificare quello che lei definisce «l’idealtipo populista», sebbene sottolinei la grande eterogeneità di questi fenomeni politici. L’origine del populismo sta dunque nella concezione premoderna e olistica della società, nella quale domina la dimensione religiosa e sacrale della comunità?
Ha colto quello che è il mio approccio allo studio del populismo, di cui tendo a dare una lettura minimalista, nel senso che è un termine al quale non bisogna chiedere troppo. Se dovessi definirlo in un concetto direi «nostalgia di unanimità». Nell’immaginario antico dominato dal sacro, che precede le rivoluzioni moderne sia politiche che scientifiche, l’ordine sociale era considerato come naturale. Le grandi rivoluzioni ribaltano questo paradigma, proponendo un ordine sociale non originato dalla natura e da dio, bensì derivante dalla dimensione razionale dell’uomo. Il nucleo del populismo risiede in questa visione antica dell’ordine sociale: al di sopra del patto politico (costituzione) vi è un’idea di popolo concepito come un organismo naturale. E in questa concezione della comunità l’elemento religioso è decisivo: il popolo del populismo è mitico, sacro, una comunità di fede. E nel mondo contemporaneo la fede si chiama ideologia, del popolo, della patria.

In base a quanto afferma, potremmo segnalare il paradosso che il populismo è l’altra faccia della politica moderna, nel senso che rappresenta una forza latente dei nostri sistemi.
Il populismo è sicuramente una componente costitutiva della modernità. Quando affermo che il populismo si origina da un immaginario antico, non intendo dire che sia un fenomeno antimoderno o residuale del passato. Il problema di fondo, a questo proposito, è che la tendenza populista è quella di distruggere ciò che io definisco «polo costituzionale». In questo caso il populismo da componente fisiologica di ogni ordine politico tende a divenire una religione politica, cessa la dialettica pluralista e si instaura una concezione manichea della società. Per concludere su questo punto mi sembra necessario pero una precisazione. Il populismo non è una novità odierna; la novità, almeno nella grande maggioranza dei casi, è che oggi i populismi sono più deboli, nel senso che rispetto al passato non riescono a farsi autoritari e travolgere il polo costituzionale.

Lei individua alcuni fattori che possono favorire, se non originare, i populismi. Il più rilevante è quella che lei chiama la disintegrazione della comunità. In altre parole, quando una società sente venir meno il proprio protagonismo storico e si presenta un forte smarrimento identitario, il discorso populista come mito del passato emerge inesorabilmente. Data la crisi politico-culturale che viviamo, ci dobbiamo aspettare una lunga epoca di populismi?
Assolutamente. Avremo una situazione di populismo endemico per moltissimo tempo in Europa, e il populismo diventerà una forma endemica dei nostri sistemi. Ma non solo in Europa. Gli stessi fenomeni di integralismo islamico, secondo la mia lettura, possono rientrare nella categoria populismo. Rifacendosi ad un’idea sacra del mondo, e percependo la modernità come forza dirompente che minaccia i loro riferimenti identitari e culturali, si propongono come antidoto immediato a questi cambiamenti radicali.

Nella sua prospettiva storico-empirica dei populismi emerge un’interpretazione per così dire peggiorativa di tali fenomeni, in contrasto con altre interpretazioni che potremmo definire di «populismo progressista», per esempio quanto ha sostenuto Ernesto Laclau nella sua «ragione populista»…
Si, anche se in termini molto schematici è così. Vedo nel populismo un grave problema. Laclau da un prospettiva marxista-piscoanalitica vedeva nel populismo la possibilità di creare un soggetto politico con la finalità politica concreta di ribaltare i rapporti di forza all’interno della società. Facendo lo storico e studiando la politica latinoamericana non posso non considerare gli effetti sociali dei fenomeni populisti – devo analizzarli in pratica e non solo in potenza – che sono stati drammatici. La chiave sta nell’idea di pluralismo, che significa libertà di errore e di sbagliare che invece il populismo per sua natura non può mai tollerare.

Lei in uno dei suoi ultimi lavori afferma: «il populismo è una visione manichea del mondo. Ma esso non consiste nel contenuto di tale schema manicheo, bensì nello schema stesso». La forza del populismo sta dunque nella sua capacità di proporre come assoluto il suo «schema di interpretazione» della realtà sociale…
Segnala un punto molto importante nella critica al populismo. Il populismo, infatti, semplifica la complessità del mondo, e nessun’altra generazione ha vissuto trasformazioni così radicali e in così poco tempo.
Questo tipo di trasformazione continua, che corrisponde anche ad una disgregazione di riferimenti etici e legami sociali concreti, genera per reazione una domanda di reintegrazione ed identità. Per ricostituire un identità in un mondo che si sgretola continuamente occorre un processo di semplificazione, e qui sta la forza vincente del populismo. Riduce la complessità ad uno schema manicheo. Una visione imbattibile che è destinata a vincere sempre su questo piano. Una funzione di consolazione di fronte alla complessità della vita che promette redenzione.

Come abbiamo detto i populismi sono e saranno presenti per molto tempo sulla scena politica. Mi sembra però miope ritenere la cura di questi fenomeni la democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. Le democrazie rappresentative vivono un momento di crisi strutturale per vari motivi. Il primo che mi viene in mente riguarda l’idea di postdemocrazia, che insiste sulla funzione sempre più simbolica dei sistemi parlamentari e sul primato sostanziale delle forze economiche. Come pensare ad un’alternativa? Forse guardando oltre la stato-nazione, cioè pensare ad una tendenza espansiva contraria alla natura regressiva del populismo?
Condivido pienamente l’analisi sulla crisi strutturale della democrazia attuale. A volte quando parliamo della crisi dei sistemi liberal-democratici ci concentriamo troppo sull’attualità e perdiamo di vista la prospettiva storica. La democrazia rappresentativa è lontana parente di quelle di inizio Ottocento. Ci possono essere mutamenti, anche molto significativi.
La sfida al populismo dovrebbe imporre una trasformazione della democrazia, anche importante, tenendo però in mente i principi costitutivi di quest’ultima (separazione dei poteri, pluralismo). Come ha detto, siamo in una fase di ripiegamento, e la risposta adeguata sarebbe di vedere in un orizzonte cosmopolita oltre le comunità nazionali, pensando ad un modello di comunità con principi universalistici oltre quello statale. L’Unione europea può rappresentare sicuramente un laboratorio politico in questo senso, ma stando alla situazione presente lo vedo come sogno utopico. In ogni caso, confido che questo terremoto populista possa provocare un’energia di risposta radicale.