Il padre di uno dei due assassini romani, che hanno ucciso per vedere la morte impossessarsi della vita di un loro coetaneo, ha reagito alla catastrofe avvenuta scartando il silenzio, l’opzione migliore, per affidarsi al suo blog. Ha scritto, citando la lettera di incoraggiamento di un suo amico, di confidare nella propria capacità, più volte collaudata nella vita, di riparare le cose negative, trasformandole in cose positive.

Questo padre non è sfiorato dal dubbio che il danno avvenuto sia irreparabile e senza possibilità di ritorno alla buona sorte. Lasciare fluire il dolore e far sedimentare la disperazione, in lunghi anni di smarrimento delle proprie certezze sociali e di ritrovamento delle ragioni più private e personali di sé, non curerà mai del tutto la ferita, ma serve per mantenersi vivi, per restituire al mondo, attraverso se stessi, qualcosa della sua umanità.

Non si può, tuttavia, scaricare su un genitore, come colpa personale, il difetto collettivo di una mancanza crescente di responsabilità. La refrattarietà a riconoscere le impasse e i fallimenti, di fare i conti con le rinunce e le perdite, distinguendo tra inibizione e necessità, crea una nuova cultura della normalità.

Non è normale che la vita sia fatta ugualmente di felicità e di infelicità, che la buona e la cattiva sorte confliggano e dialoghino. È normale essere «normali»: privi di problemi particolari e del tutto isomorfi agli altri, senza un’esistenza singolare che causi allarme a se stessi e al prossimo.

Non è un fatto casuale che la cocaina avvolga il delitto di Roma nelle sue nebbie. È uno strumento molto efficace di anestesia performativa: l’agire senza essere davvero presenti in sé. Con il suo effetto anestetico sorregge la «normalità» del non voler sentire e sentirsi. Con il suo effetto performante eccitante dà un’illusione di vitalità che bilancia la morte dei sentimenti a cui conduce la negazione, sotto forma di oblio, della sofferenza.

La presenza della cocaina nella nostra vita è una realtà molto diffusa perché non sia riconosciuta, eppure non lo è. La sua percezione richiede la messa in discussione della cultura omologante che si appropria del suo uso.

Lo stato alterato di coscienza, che la cocaina induce, non è la causa dell’assassinio commesso dai due automi, anche se è stato usato per sciogliere i loro freni inibitori. La causa vera è la morte psichica dalla quale sono invasi, che la cocaina chiamata a contrastarla, non ha fatto che promuovere.

Vedere un coetaneo, stordito anche lui da una sostanza somministratagli appositamente, morire nella più atroce delle agonie, ha avuto il significato di estroflettere lo stato agonizzante della vita dentro di loro, proiettandolo sulla vittima. Non per liberarsi della morte che incombe nel loro mondo interno, ma per riflettersi in essa, sfidandola.

Il sadismo terrificante che domina la scena di questo crimine, deriva da una passione fredda, invertita nella sua ragione d’essere.

La messa al bando della sofferenza, il regno di una normalità che si riflette nel nulla, rende l’amore insensato, un guscio vuoto.

L’odio orfano dell’amore, di cui è espressione in condizioni di lutto e di dolore, diventa una forza impersonale che, slegata dalla relazione con l’altro, assume un enorme potenziale distruttivo che, incistato nello psichismo, è in attesa di esplodere. Cerca nell’altro il volto della madre sfinge (metafora di un mondo che ha perso il suo senso), la maschera di morte con cui può competere: «Non ti temo, sono della stessa sostanza che cancella la vita di cui sei fatta tu».