Oggi è forse il momento più vitale da molti anni per le tre cinematografie centrali dei Balcani (croata, serba, romena), e il Trieste Film Festival se ne fa il giusto testimone, sia riprendendo film già proposti altrove che riuscendo a intercettarne altri trascurati dai festival generalisti. A quelle tre cinematografie il festival aveva dedicato quasi vent’anni fa le sue più organiche retrospettive, e nel frattempo molto è cambiato: il cinema serbo, da cuore della cinematografia jugoslava, ne è diventato il punto debole e spesso desolante; in Romania è nata una nuova onda le cui letture critiche spesso ignorano i veri maestri (Ciulei, Sucan e Tatos più ancora che Pintilie e Daneliuc); la Croazia ha conservato punte d’eccellenza ma senza la costanza del passato.

Dal 2014 sembra emergere un nuovo vero rilancio, che speriamo porti alla messa in soffitta del triste predominio di una «commedia balcanica» e del suo cinico cavalcare le recenti guerre. L’elemento di novità si sente soprattutto nel risollevarsi del cinema serbo: Niije dete di Vuk Ršumovi, premiato alla Settimana della critica di Venezia, è quel film onesto che mancava da due decenni nel cogliere il segnarsi delle vicende storiche; e persino tra i cortometraggi, territorio particolarmente segnato dai conformismi, può qui apparire un piccolo, sensibile film come Marijina epizoda di Sanja Zivkovic con splendide Milena Dravic e Nevena Ristic.

Il cinema romeno aveva dato molti bei film di autori della nuova onda, tra i quali da tempo Corneliu Porumboiu appariva il più convincente. Ma mai aveva dato un film geniale come Al doilea joc che qui si riprende da Berlino e Locarno. Un film di cui nemmeno un’immagine è stata girata dall’autore, né esso è un «film di montaggio» perché anche il montaggio della partita di calcio con cui il film coincide è quello televisivo originale. Porumboiu ha «girato» una «seconda» colonna sonora, il che rende questo il film più debordiano successivo a Debord. Un film che sembra segnare un «secondo tempo» del cinema, in sintonia anche nel titolo con lo splendido Francesco Calogero qui in anteprima (Seconda primavera).

Ma è un film di «secondi tempi» anche il romeno-serbo qui presentato, Pàdurea di Siniša Dragin, notevole revisione dei repertori con Tito e Ceausescu, che riesce a dimensionare le vicende dei regimi nella natura della foresta che li unisce, con forse l’unico limite di rendere fantasmatico il dipinto di Ion Andreescu che percorre la vicenda. Ma è la Croazia che qui vince nettamente la partita. E non tanto per un pur bello e commovente film su Goli otok, Goli di Tiha K. Gudac, che ha forse solo il limite di ignorare quell’unico «repertorio» sulla vicenda costituito dal film serbo, di finzione e girato a lager chiuso su altri set ma proprio perciò geniale e coraggioso: parliamo di Sveti pesak di Miroslav Antic, censurato nel 1968 e tuttora sottovalutato.

Il grande film croato di questo festival è Kosac opera seconda (appunto) di Zvonimir Juric, che con Goran Devic si era unito nella regia nel più necessario dei film postjugoslavi, Crnci visto qui tre anni fa ma non premiato, cosa che ci auguriamo succeda al nuovo film, che purtroppo finora solo il festival di Toronto ha accolto mentre l’Europa, che già non ha mai capito nulla delle vicende balcaniche, sembra continuare a non capirne il vero cinema, preferendo aggrapparsi ai suoi autori canonici. La coppia Juric-Devic del precedente film appare particolarmente interessante per il loro incontro episodico e necessario tra un «documentarista» e un «finzionale», che proseguono l’opera singolarmente, ciascuno in modo affascinante. Se di Devic attendiamo il primo lungometraggio singolo dopo molti corti e medi, Juric ci dà con questo film (dopo alcuni corti che appaiono a posteriori schegge di questo lungo) un assoluto capolavoro, degno di unirsi ai migliori Skolimowski e Bela Tarr in un cinema che percepisce il male e dreyerianamente lo distorna.

Crnci era geniale nel rapporto con presenze e voci fuori campo ma Kosac va oltre, tutte le presenze in campo sono tracce di presenze invisibili. L’altro era un film di guerra senza donne, questo trova in Mirjana Karanovic una presenza allo stesso tempo centrale e che tuttavia esce dal film in un fuoricampo di puro suono. In altri momenti del film vediamo altri «dissolversi» di personaggi. Non è più un film che parla della guerra ma ne è la traccia più forte che il cinema possa coglierne nella vita quotidiana, nel rapporto con un passato di morte che vi incombe, di tracce di corpi che sono esistiti. Un film degno di stare accanto a Torneranno i prati di Ermanno Olmi, al livello più alto del cinema di oggi.