Mentre Renzi e Franceschini riaprono il museo di Reggio Calabria con i bronzi di Riace e la canonizzazione del volontariato, diventa operativa una profonda riforma del sistema italiano della tutela – e del relativo ministero – che ha caratterizzato il Novecento. Riorganizzazione di uffici e istituti centrali e periferici, 22 «istituti dotati di autonomia speciale», valorizzazione di aree monumentali e dei musei organizzati in «Poli regionali» e separati dalle soprintendenze. Queste ultime scomparse nella forma singola, o mista, e unificate come «Soprintendenze archeologiche, belle arti e paesaggio».

La riforma avviene in un corpo sfiancato da decenni di tagli e mancate assunzioni, con provvedimenti gravi come il «silenzio-assenso» della «Legge Madia», che prevede in casi particolari l’intervento superiore dell’autorità prefettizia.
Ma la vera crisi non emerge nella rappresentazione prevalente tra fautori e critici della riforma, gli uni all’assalto della tutela gli altri alla sua difesa. I nodi sono su lavoro, valorizzazione, territorio. Emerge l’uso di tirocini, gratuità e volontariato sostitutivo, più che sussidiario; il centralismo sembra appartenere, in forme diverse, a critici e fautori. La crisi ha radici più profonde.

Il Ministero dei beni culturali e ambientali nasce agli inizi del 1975, dopo molto dibattito e con solide radici nella narrazione pubblica centralista, di matrice ottocentesca, dello stato italiano. Segue le rivendicazioni operaie e l’accesso ad una scolarizzazione democratica di fine anni Sessanta del Novecento. Il superamento della rarità e pregio nel riconoscimento dei beni culturali (come insegnò Bianchi Bandinelli) con nuovi occhi e intelligenze, amplia notevolmente il numero degli stessi beni. Le forze della tutela sono ben presto insufficienti per tutelare un patrimonio di molte decine di migliaia di unità. Uno squilibrio strutturale con fondi inadeguati. Si ricorre all’utilizzo sistematico e numericamente assai significativo dei cosiddetti collaboratori esterni, non di rado impiegati con sfruttamento e diffusa gratuità.

È proprio dalla relazione fra aumento di studiosi, impossibile assorbimento dello Stato e accresciute esigenze di lavoro su identità, analisi e valorizzazione dei luoghi che si forma la forza lavoro degli indipendenti. Questi lavoratori, radicati nei luoghi e ora riconosciuti nel «Codice dei beni culturali e del paesaggio» (art. 9bis), sono una forza di produzione preziosa, di ricerca, valorizzazione e beni comuni. È radicamento cognitivo nel paesaggio, da dove serve partire.

La tutela del paesaggio e il suo specificarsi in luoghi e segni culturali, comprendendoli, pretende unitarietà, e in questa direzione appare positiva l’unificazione delle soprintendenze. Sono piuttosto i modelli noti a essere inadeguati al patrimonio vasto. Servirebbe una territorialità della tutela radicalmente diversa, una nuova riflessione (per la verità assai timida anche in una sinistra più impegnata a difendere il vecchio sistema) che si radichi in teoria e prassi dei beni comuni.

Senza la costruzione di una tutela diffusa, di rete, che potenzi gli strumenti a disposizione dei luoghi tramite la pianificazione paesaggistica (originatasi nel 1985 con la «Legge Galasso», vera, profonda innovazione rispetto alle «cose» e ai luoghi di rarità, pregio e particolare bellezza) prevarrà il comando centralistico nel territorio, miratamente de-regolato da classe politica e lobbies relative.

Territorio, neo-centralismo e lavoro appaiono anche nel punto nodale della riforma, i «Poli museali regionali». Si pone il corretto problema dell’autonomia di musei e ricerche connesse. Il legame con le soprintendenze non può essere cancellato, ma andrebbe piuttosto riscritto in funzioni più vaste e adeguate della relazione museo/territorio. Infine: serve lavoro professionale, ci sono precisi profili, e da qualche parte si vedono novità. Ma troppo spesso si enfatizza, con simpatia opportunista e un po’ curiale, i bravi ragazzi ciceroni e volontari, a iniziare dalle visite al Quirinale. Gratis è bello, non per il lavoro ma per la spending review.

Proprio nei Poli museali regionali Mibact emergono problemi territoriali: è previsto che organizzino la valorizzazione anche di realtà non statali. La somma di potere tolta alle soprintendenze riappare nel sistema Musei: con effetti paradossali per il territorio. Come in Sardegna, dove un Polo statale composto da tredici musei e luoghi della cultura potrebbe coordinare un sistema museale di competenza regionale di circa duecento unità. In compenso la Sardegna, Regione autonoma e portatrice di un monumento Unesco come Su Nuraxi di Barumini, non ha neppure un istituto di autonomia speciale.

Esiti plasticamente espressivi di un neo-centralismo che rischia di espropriare la possibilità di governare dai luoghi e creare lavoro con cultura e paesaggio. D’altronde, nella riforma costituzionale che voteremo questo autunno si dice a chiare lettere che la promozione sarà, e con dei limiti, in capo alle Regioni, ma la «vera» valorizzazione sarà in capo allo Stato.