Blue Kids ma più che malinconici i due giovani protagonisti del film d’esordio di Andrea Tagliaferri sembrano concentrare l’indifferenza prodotto di quella provincia italiana agiata, da cronache nere, miscuglio di soldi e di noia. Due fratelli (Fabrizio Falco e Agnese Claisse), isolati dal resto del mondo lasciano scivolare le giornate girovagando: la messa e i furti in sagrestia, qualche locale la notte, una birra, il sesso a pagamento, la ragazza scopa, il fratello tira fuori i soldi. Non hanno amici, non vedono nessuno, soltanto la nonna che carezzandogli la testa gli ricorda che non sono più bambini. Chiusi, senza apparente erotismo incestuoso – ma divideranno la seducente cameriera Matilde Gioli – appaiono impermeabili al mondo.

 

La madre è appena morta, i due ragazzi aspettano l’eredità, la donna però ha lasciato tutto al marito, il loro padre. I due non ci stanno, vogliono i soldi, vogliono fare il giro del mondo. Gli è rimasta la casa, enorme ma non basta. «Cosa facciamo noi?» dicono al padre che alleva polli, ha un’altra donna e pianifica un viaggio a Parigi. «Lavorate come faccio io». Impossibile, ovviamente. Il resto è abbastanza conseguente: un complice cosplayer, sedotto dalla sorella, due maschere da Sailor Moon e Poer Ranger per assalire il padre e la compagna, ammazzarli, buttarli nel burrone sperando che li ritrovino presto per avere finalmente il denaro.

 

Non è però il crimine in sé che interessa Tagliaferri, già aiuto di Matteo Garrone (produttore del film) e autore della sceneggiatura insieme a Pierpaolo Piaciarelli. Piuttosto è quanto accade intorno, prima e dopo, il tempo sospeso e l’estraneità dei due fratelli, segni di una terra perduta dell’adolescenza, segnata da crimini e presunzione ma soprattutto di un ambiente, di un disagio più che socialmente generalizzato ancorato a quella famiglia, a quelle persone tra cui nessuno ha un volto, nemmeno un nome.

 

Il luogo è il delta del Po, Comacchio, provincia appunto, e però procedendo i il regista si allontana dalle sue premesse. Non siamo nella Piccola patria di Alessandro Rossetto, tra le geografie fisiche e emozionali la corrispondenza non si trasforma in messa in scena. La lente rimane la famiglia, e la sua follia, dei ragazzi, e di genitori che seppure fuoricampo – la madre non la vediamo – lasciano intuire un’ analoga indifferenza e presunzione.

 

La materia è complessa, e sfuggente, Tagliaferri ha un bel senso dell’immagine, e ricerca un orizzonte personale che qui però gli sfugge; manca la dichiarazione di un sguardo che sia punto di vista, non giudicante ma narrativo. I due fratelli girano un po’ a vuoto, nonostante l’efferratezza delle loro gesta, maledetti non abbastanza da divenire figure di una rivolta senza causa.