Non è semplice salvare il destino, ritrovare il tempo perduto, assumersi il peso della propria responsabilità di conoscere. Soprattutto dopo che giganti come Proust, Joyce, Musil o per restare dalle nostre parti, Pirandello e Svevo hanno svolto magistralmente tale compito. Eppure è proprio questo che la letteratura e l’arte hanno da sempre tentato di fare.

CON ESITI DIFFERENTI, certo, producendo non sempre capolavori. Ma in un’epoca di nani, per di più scesi ormai dalle spalle dei giganti, come l’attuale, il tentativo, la voglia, l’obiettivo di misurarsi con «il nostro dovere conoscitivo che, unico, ci salverà dalla dannazione» rappresenta senza dubbio un’ottima ragione per avvicinarsi e dare credito al lavoro di uno scrittore esordiente. Si tratta di Paolo Scardanelli, autore di L’accordo. Era l’estate del 1979 (Carbonio, pp. 235, euro 15). Sue, infatti, sono le parole appena riportate che danno, non soltanto il senso più profondo della sua scrittura, ma definiscono inoltre il livello di coraggio e ambizione dello scrittore siciliano.

Del resto anche il periodo di tempo in cui si svolgono le vicende narrate è una delle epoche di transizione forse più complesse e controverse della nostra storia. Si tratta, come si evince dal titolo, del passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta. I primi divenuti ormai «un vecchio mantello lasciato nel guardaroba non senza una punta di nostalgia, colla necessità d’un cambiamento, ignari della miscela di nitroglicerina che furono, del sacro e profano, dell’odio e amore che li agitò, dell’ansia d’eterno che li attraversò, della desolazione del dopo che ci colse tutti e ci traghettò verso gli orrendi Ottanta».

RACCONTATO da un narratore, Paolo, che è anche protagonista ma che divide quest’ultimo ruolo con un altro personaggio, Andrea, amico fraterno, il romanzo risulta essere raccontato quasi allo stesso tempo in prima e terza persona, con l’effetto di generare un coinvolgimento ancor più forte del lettore. I due seguiranno un destino opposto: mentre Paolo si allontanerà dalla Sicilia, Andrea rimarrà nella sua terra, accettando di lavorare e poi ereditare l’azienda del padre, da cui lo divide un contrasto insanabile che sembra quasi adombrare, al di là del caso specifico perfettamente delineato, quel contrasto generazionale che pure fu una componente essenziale del lungo Sessantotto italiano.

Ciò che emerge nei destini opposti dei due protagonisti sembrano essere le caratteristiche più profonde, forse, di quel passaggio epocale, ovvero come sia stato possibile che tutta una serie di idee, comportamenti, valori, grazie a piccoli spostamenti, a impercettibili mutazioni si siano trasformati nel loro opposto. O, per dirla in maniera più complessa, di come tutto quanto sia stato prodotto dal movimento sia stato in pratica sussunto dal capitale e messo al lavoro.

IL TUTTO NARRATO con una scrittura colta e piacevole, densa di rimandi ma assolutamente personale anche nel modo in cui viene effettuata la citazione o il richiamo. Resta una domanda: perché nell’euforia della vittoria italiana al mundial dell’82, i napoletani avrebbero dovuto indossare magliette di Maradona e l’autore definisce San Gennaro, Maradona e l’Italia quale «loro santa trinità», quando ci vorranno in realtà un paio d’anni prima che il più grande di tutti sbarchi a Napoli?