Ci mancava il sarcasmo platinato su morti e violenze, ma c’era da aspettarselo, conoscendo il repertorio del personaggio. Il presidente incendiario Usa ieri si è ripreso la scena, gli sono bastati pochi minuti per aggiungere un bel po’ di guacamole su una brace accesa ormai da oltre una settimana.

“Speriamo che George Floyd ci guardi dall’alto e pensi che questi sono grandi giorni per gli Stati Uniti”, ha detto l’ex The Apprentice durante la presentazione sui dati sulla disoccupazione in calo nel Paese, assieme alla rivendicazione di aver battuto il Covid-19 e degli sforzi profusi per superare le discriminazioni razziali.

Insomma, il solito Trump, che ha pure aggiunto di sostenere la tesi del fuoriclasse del football Drew Brees (che però si è scusato dopo aver inteso di averla fatta assai grossa, aggiungendo di impegnarsi come altri colleghi per sostenere la causa degli afroamericani) secondo cui sarebbe un’offesa verso la bandiera americana inginocchiarsi per protesta contro le violenze sui neri durante l’esecuzione dell’inno nazionale.

Un monito per gli sportivi, come Colin Kaepernick, l’asso del football e inventore della protesta quattro anni fa, rimettendoci la carriera nella Nfl, ma anche per quel manipolo di poliziotti che si stanno mostrando vicini alle proteste diffuse nel Paese per l’omicidio di Minneapolis.

Non solo Brees, duramente criticato da Lebron James e altri assi, ha innestato la retromarcia ma sono arrivate anche le scuse (assai tardive) della lega del football, che negli anni si era opposta duramente alle proteste plateali, mediatiche dei suoi atleti per le reiterate violenze della polizia sulle minoranze.

“Avevamo torto, non abbiamo incoraggiato gli atleti a impegnarsi contro il razzismo”, ha ammesso il commissioner della Nfl, Roger Goodell. E questo invece è un passaggio non atteso, ma che va inquadrato nella pessima figura mediatica del football, microcosmo a tinte Rep che ha spalleggiato Trump nel suo delirio contro gli atleti con il coraggio della parola, rispetto alla Nba, che invece piazza in prima fila le sue stelle – Lebron James, Steph Curry, Dirk Nowitzki, Carmelo Anthony – nella stigmatizzazione mediatica delle violenze, nel sostegno alle manifestazioni pacifiche. Insomma, diventando un fattore nell’opinione pubblica americana.

Una politica che potrebbe portare alla causa altri sostenitori, aiutando il sorpasso della stessa Nba sulla Nfl negli indici di gradimento del pubblico, ricordando che la palla ovale è lo sport per eccellenza per gli americani. E che, anche nello sport, al primo posto per gli americani ci sono i dollari.

Anche perché – a proposito di Nba – nei giorni scorsi si è impegnato il più grande di tutti, il mito del basket a stelle e strisce, Michael Jordan, che dopo essersi manifestato per la prima volta contro l’intolleranza della polizia sui neri ha anche messo sul tavolo un assegno da 100 milioni di dollari per le politiche sul territorio sull’uguaglianza razziale, contro le discriminazioni e a favore dei programmi sull’educazione.

“La morte di George Floyd rappresenta un punto di non ritorno”,  ha aggiunto il sei volte campione Nba con i Chicago Bulls negli anni Novanta. Un messaggio potente, la prova che stavolta lo sport non fa un passo indietro, al punto che i Los Angeles Galaxy, una delle squadre di punta del soccer, dove hanno giocato negli anni David Beckham e Zlatan Ibrahimovic, hanno licenziato Aleksandar Katai, 29enne serbo, perché la sua consorte aveva preso in giro le manifestazioni di dissenso in strada per l’assassinio di Minneapolis con un paio di messaggi sui social. In particolare, in un post la signora aveva invitato la polizia a uccidere i neri in protesta per strada.