«Ebrei in casa, uomini in strada». È questa la frase che funziona da stella polare per David Karnowski, erede di commercianti ebrei polacchi, osservanti ma anche attenti a quel che circola al di fuori della autarchica cultura degli ebrei dell’est. A David lo shtetl ebraico-orientale va stretto. È un ebreo moderno, fervente seguace di Moses Mendelssohn, il maestro dell’illuminismo ebraico. Non vuole vivere in un mondo a parte. È convinto che ci si possa integrare senza assimilarsi, coniugando la propria specifica identità ebraica con quella del paese in cui si vive e di cui si è parte.
Karnowski va nella Berlino di inizio secolo, dove campeggia la statua di Mendelssohn, dove le menti sono aperte e si può essere osservanti in casa e uomini come tutti gli altri per la strada. Professionalmente raccoglierà successi, per il resto incontrerà solo delusioni. Nella illuminata patria della modernità gli ebrei li guardano storto comunque, anche quando parlano un tedesco perfetto ed eccellono nelle loro professioni. Gli ebrei tedeschi fanno la stessa cosa con gli ost-juden, accusati di ostentare senza vergogna la loro appartenenza. Proprio qui, nella terra di Mendelssohn, serpeggia fra gli ebrei un latente odio verso se stessi che era del tutto assente nel «mondo fuori dal mondo» dell’ebraismo orientale.
Anche il sogno di potersi integrare senza farsi assimilare si rivela un miraggio. Fuori dallo shtetl, gli ebrei orientali finiscono presto per comportarsi come tutti gli altri, ansiosi di assimilarsi. Lo stesso figlio di David, Georg, ginecologo di chiarissima fama ed eccellente clientela, finisce per sposare una shikse, una cristiana. Ma per i tedeschi restano comunque tutti ebrei: poco importa se vendano stracci in caffettano o siano i loro medici di fiducia.

In capo a pochi decenni, dopo la guerra, dopo la rivoluzione, l’inflazione e l’avvento del nazismo, David Karnowski dovrà riconoscere che le cose sono andate all’opposto di quel che pensava. Adesso lui e la sua famiglia sono goyim in casa ed ebrei per la strada. Incalzati dai nazisti, dovranno partire di nuovo, stavolta per l’America, portando come pesantissima eredità nel nuovo mondo un ragazzo, il figlio metà ebreo e metà cristiano di Georg, avvelenato da un odio per se stesso portato alle estreme conseguenze. Pubblicamente umiliato dai nazisti in Germania, diventerà nazista e antisemita nel nuovo Paese.

Ma La famiglia Karnowski (Adelphi, traduzione di Anna Linda Callow pp. 498, e 20.00), pubblicato nel 1943 da Israel Joshua Singer, fratello maggiore del celeberrimo Isaac Bashevis e della altrettanto sottovalutata Esther Kreitman, tratta di faccende ebraiche solo nel suo primo e più superficiale strato. L’obiettivo è più vasto e più ambizioso. Singer adopera l’angolazione privilegiata della vicenda ebraica per descrivere il fallimento dell’Illuminismo, svelarne le menzogne e metterne a nudo le illusioni. Le pulsioni che spingono a guardare con sospetto e diffidenza chi è diverso e immaginarselo responsabile dei propri guai sono troppo profonde per essere domate dalla Ragione. Il sogno dell’eguaglianza nella diversità finirà sepolti sotto le macerie della statua di Mendelssohn, demolita dai ragazzi in camicia bruna delle SA. Quel sogno, peraltro, lo negano e rinnegano gli ebrei stessi, alcuni, i tedeschi, mimetizzandosi fino a smarrire la propria identità, altri, gli ost-juden, erigendo muri per difenderla e conservarla.

In questo bellissimo libro pubblicato per la prima volta in Italia, scritto in yiddish, tradotto subito in inglese e poi dimenticato fino alla traduzione francese del 2008, Israel Singer fa della tragedia degli ebrei d’Europa, di cui ignorava le reali dimensioni ma intuiva la natura sterminatrice, la lente attraverso cui raccontare e denudare il tracollo di una intera civiltà. Per quanto angusto e arcaico, lo shtetl era una comunità capace di dare senso all’esistenza. La modernità non conosce comunità, e neppure sensatezza, né per gli ebrei né per i tedeschi, che qui quasi si riflettono gli uni negli altri. Tra l’ostilità latente che gli ebrei moderni riservano agli ost-juden e quella di cui loro stessi sono fatti oggetto dai tedeschi c’è poca differenza. Il matrimonio misto tra Georg Karnowski e la moglie cristiana è avversato da entrambe le famiglie, per motivi uguali e ugualmente inconsistenti.

Ma anche all’interno dei gruppi apparentemente coesi, la solidarietà è pura apparenza. Lo scoprirà David Karnowski quando, nel corso della prima guerra mondiale, avrà bisogno di un aiuto che la cerchia più intima della sua comunità gli negherà. Lo scopriranno anche i tedeschi, nella tempesta di Weimar, e la nostalgia di un passato pre-moderno contribuirà in maniera determinante a spingerli nelle braccia di Hitler l’Incantatore.
Quando scriveva il suo libro, destinato a rivelarsi l’ultimo, Israel Singer non era al corrente di Auschwitz. Sarebbe morto, nel 1944, senza sapere che il mondo in cui era nato, quello dell’ebraismo orientale, era stato cancellato dalla faccia della terra e persino dalla memoria. È stupefacente come riesca lo stesso, non solo a immaginare la tragedia immaginabile che si stava consumando, ma anche a comprendere, con grandissime precisione e perspicacia, i percorsi banali, addirittura miseri, lungo i quali il popolo tedesco precipita nella barbarie e le illusioni che impedirono a tanti ebrei tedeschi di capire cosa stava per succedere.

Il fatto di scrivere senza sapere della Shoah e della distruzione dell’universo giudaico-orientale concede a Israel Singer una libertà di cui altrimenti non avrebbe potuto godere. Proprio perché ignora l’incommensurabilità di Auschwitz, può ricercare gli elementi comuni, non tedeschi né ebrei ma umani, che sono all’origine della persecuzione, del razzismo e della catastrofe finale. Dopo il 1918, i tedeschi vanno alla ricerca di qualcuno cui addossare la colpa della disfatta e delle sofferenze che ha comportato: lo trovano nella leggenda della «pugnalata alle spalle» e negli ebrei. Dopo l’ascesa dei nazisti, anche gli ebrei cercano qualcuno da additare come responsabile: lo trovano nella miriade di ebrei orientali immigrati di recente, troppo diversi per non ridestare la fiamma sopita dell’antisemitismo.

Israel Singer non ha la potenza visionaria del fratello minore, la cui intima modernità è dovuta peraltro proprio al suo essere ultimo testimone di una civiltà rasa al suolo, tanto da diventare il grande narratore dell’esilio come dimensione esistenziale umana. Israel è un narratore ancora ottocentesco, molto più a proprio agio di Isaac nelle grandi narrazione epiche e realistiche. I suoi romanzi, e questo ancora più dei Fratelli Ashkenazi, sono un quadro corale e apocalittico della tragedia non solo ebraica e neppure solo europea del Novecento.

Ma l’essere morto senza scoprire fino a che punto ci si era spinti, prima di sapere che l’intero suo mondo e la sua stessa famiglia erano stati inghiottiti dalla fame di sterminio nazista, lascia ancora spazio a un barlume di speranza che non sarà più consentito al fratello. Una speranza ispirata non più dalla Ragione ma dalla generosità, dall’amore per la vita e per se stessi, persino da una gioiosa incoscienza che si rovescia in saggezza. Qualcosa che esula dalla Ragione e che con la ragione, anzi, a volte confligge. Nei decenni successivi Isaac racconterà la condizione non degli ebrei ma di tutti gli esseri umani dopo l’apocalisse. Quella che suo fratello, nella Famiglia Karnowski, aveva descritto in corso d’opera.