Agli inizi di Aprile l’Alta Corte australiana ha riconosciuto a una persona il diritto di dichiararsi di «genere non specifico». La persona interessata, di sesso biologico maschile alla nascita, aveva fatto ricorso nel 1989 a un intervento chirurgico per costruirsi un sesso femminile ma poi aveva rigettato anche questa nuova identità. Fatto salvo il principio dell’autodeterminazione, per cui una persona non può essere prigioniera di un’identità in cui non si riconosce, bisogna ammettere che la definizione giuridica dei nostri modi di sentire e di essere fa prevalere la norma sulla soggettività, per quanto utile possa essere nella difesa dei diritti umani. La mutilazione dei propri genitali è una soluzione violentemente normativa di un conflitto (che in apparenza si vorrebbe sottrarre alle convenzioni sociali) tra la realtà del proprio corpo e la sua percezione psichica perché sostituisce al piacere erotico (con tutte le sue ambiguità, contraddizioni e incertezze) un’illusoria pacificazione del soggetto sul piano identitario ottenuta con la contraffazione dell’anatomia. La richiesta di appartenere a un sesso non specifico catturata dal linguaggio della logica giuridica, di cui diventa appannaggio, resta anch’essa nel registro dell’esperienza disincarnata perché non ci dice nulla sulle forze interiori che l’hanno determinata. Dichiararsi di sesso non specifico perché ci si sente sia uomo sia donna, e incerti tra una condizione e l’altra, è diverso da rinunciare alla specificità perché non ci si sente né l’una né l’altra cosa. Nel primo caso il desiderio sopravvive nella sua lacerazione, nel secondo caso evapora.

Complicano il nostro modo di vedere la questione dei sessi alcuni errori di prospettiva nati dalla migliore delle intenzioni: liberare la sessualità, quella femminile e quella omosessuale in particolare, dalle sue molteplici sovradeterminazioni socioculturali. Seguendo questa strada si è arrivati alla sostituzione del concetto di “sesso”, connesso all’anatomia, con quello di “genere”, connesso all’orientamento psicosessuale. L’idea di fondo è che il collegamento con l’anatomia porta a una definizione “binaria” dell’identità fondata sullo stereotipo eterosessuale mentre bisognerebbe ammettere una libertà psichica nella determinazione della sessualità che meglio si adatta alla molteplicità delle sue espressioni. L’idea in sé non sarebbe sbagliata ma se l’anatomia non può essere il destino della sessualità non può neppure essere dissociata da essa. L’adozione acritica del concetto di “genere” tende a disincarnare le relazioni umane assoggettandole a una loro definizione linguistica, grammaticale.

Il rispetto dell’anatomia non impone uno schema eterosessuale: sottolinea una differenza/complementarità erotica tra la donna e l’uomo che non è una norma di comportamento universale ma una relazione naturale dalla quale non prescinde nessuna declinazione della sessualità o percezione della propria identità. Ogni corpo è femminile e maschile, omosessuale e eterosessuale al tempo stesso ma se è vero che sono le combinazioni psichiche di queste sue declinazioni naturali che determinano la sua “plasticità” libertà sessuale, è pure vero che la sua tensione, intensità erotica (omosessuale o eterosessuale che essa sia) è legata al fatto anatomico che ne fa un corpo di donna o di uomo e alla specifica mancanza di un corpo complementare che questo comporta. Non sentirsi in sintonia con il proprio corpo è prima di ogni altra cosa questione di libertà ma perché questa libertà non diventi autoreferenzialità, questo corpo che imbarazza non può essere negato, ignorato.