A quattro anni dalla scomparsa di Franco Scaldati non è scomparso per fortuna il suo nome dalla fragile memoria del teatro. Anzi l’opera dell’attore e drammaturgo palermitano continua a proliferare, dal prezioso lavoro che da tempo va svolgendo Franco Maresco alla riappropriazione dei suoi testi da parte di nuovi interpreti, come Vetrano e Randisi. E alla fine del mese ci saranno a Roma due «giornate di studio» a lui dedicate, a cura di Valentina Valentini. Piace che sia dunque la figura di Scaldati a presiedere alla riapertura del teatro di Naso, sotto la direzione di Matteo Bavera. Era chiuso da sessantasette anni. Dopo l’inaugurazione all’insegna del suo testo più popolare, Il pozzo dei pazzi, esito di un laboratorio condotto dal francese Georges Lavaudant con un gruppo di giovani attori siciliani, nei giorni scorsi si è vista una sorta di silloge scaldatiana sotto il titolo È la terra un’unica finestra.

Naso è un borgo dei Nebrodi che guarda da un lato verso il mare, affacciato sulle isole Eolie, e dall’altro vede in lontananza la cima dell’Etna. Paese di baronie e latifondo, in altri tempi. Non si fatica a immaginare il pubblico che si affollava nei palchi del suo ottocentesco teatro, singolarmente intitolato al conte astigiano Vittorio Alfieri – il nuovo logo l’ha condensato in un più rapido (e polisemantico) VA’. Basta qualche immagine del Gattopardo, che il programma di questa prima stagione per forza sperimentale ha offerto come lettura pubblica. Oggi le ragazzine che incontri al bar guardano con curiosità gli strani invasori venuti dallo sconosciuto «paese di teatro», mentre sognano con qualche cechoviana ragione una fuga a Palermo, a Palermo, a Palermo. E chissà che presenze eccentriche come il polacco Krzysztof Warlikowski (o l’altro polacco, Krystian Lupa, che arriverà qui a fine stagione) non siano in grado di smuovere qualcosa.

Diretto dallo stesso Bavera, È la terra un’unica finestra è un attraversamento della parola di Scaldati che intreccia brani di testi diversi attorno a quello assunto a titolo, capace di rivelarne la sostanziale unità. La fabula si è lentamente dissolta nel teatro di Scaldati, ciò che ne resta è la sua inconfondibile voce. Ma lo spettacolo è anche e forse soprattutto l’occasione di rivedere sulla scena Melino Imparato, uno degli attori in cui si è letteralmente incarnato il teatro di Scaldati. Una grande sapienza scenica. Eccolo presentarsi davanti al sipario ancora chiuso, dialogando di munnizza e sasizza con la voce che gli giunge da chissà quale distanza. Il corpo un po’ ripiegato su di sé ha improvvisi slanci, come se a muoverlo fossero invisibili fili. E quando quel sipario si apre, ecco i tavoli ancora rovesciati e da rimettere in ordine di una taverna in cui si dipana l’alcolica evocazione di un mondo di ombre, di incerte presenze in bilico fra la vita e la morte. Eco della zona d’ombra della città in cui Scaldati amava calarsi per tirarne fuori quei personaggi marginali, disperatamente comici e un poco irreali che riversava nei suoi testi. Calati in una scrittura che attraversa con violenza e dolcezza un mondo interiore di velata sensualità.

Che siano vivi o morti o morti, svegli o immersi in un sogno, non lo sanno nemmeno loro, i vecchi solitari e alcolizzati di Assassina o il misterioso Lucio che invoca la sua Illuminata imbiancata dalla luna. In lotta con la propria ombra o con l’incombente presenza dei surci. Per un attimo riemergono i personaggi di Totò e Vicé, eredi della coppia del Pozzo dei pazzi nel recitare il teatrino quotidiano della strada, una surreale riffa o la commedia di una contesa politica (qui il secondo è Salvatore Pizzillo). Per lasciarci una provvisoria conclusione, che un’opera incompiuta è la natura umana.