All’occorrenza, noi possiamo girare la testa o chiudere gli occhi, lui no: Alex DeLarge – il protagonista di Arancia meccanica, il romanzo di Anthony Burgess tradotto nell’omonimo film diretto da Stanley Kubrick – dedito allo stupro e all’ultraviolenza, oltre che alla passione per Beethoven, non può distogliere lo sguardo neppure per il tempo infinitesimale di un battito di ciglia. Il divaricatore oculare e la somministrazione di un farmaco che induce nausea, rispondono alla perfezione al protocollo della cura Lodovico: imporre che ogni dettaglio della scena osservata (stupri e violenze di ogni tipo) pervada, attraverso gli occhi, la mente di Alex. È il recupero che spetta a chi non è stato educato in modo appropriato e merita una giusta (per quanto tardiva) rieducazione.

Che relazione c’è tra educazione e rieducazione? La risposta a questa domanda rappresenta uno degli assi portanti dell’ultima raccolta di saggi di Noam Chomsky dal titolo Capire il potere (Il Saggiatore, pp. 601, euro 25,00). Descrivendo la situazione della scuola negli Stati Uniti (ma il discorso, a parere di Chomsky, è applicabile in molti altri casi), emerge in tutta chiarezza che il carattere coercitivo dell’educazione imposta ai ragazzi non è molto diverso da quello somministrato ad Alex con la cura Ludovico.

Il caso della scuola, infatti, coincide in larga parte con la questione delle forme di indottrinamento promosse dagli organi di informazione – uno degli altri temi portanti di Capire il potere. Emblematico a questo riguardo è il caso delle università: poiché non ce la fanno ad autofinanziarsi, il livello più elevato dell’istruzione è affidato a istituzioni «parassitarie» che dipendono dagli studenti più agiati e dalle aziende che promuovono ricerche indirizzate esclusivamente ai propri interessi. Secondo Chomsky non solo le università, ma più in generale ogni forma di istituzione scolastica è finalizzata a «fornire un servizio ideologico, promuovendo l’obbedienza e il conformismo», un processo che, secondo lui, comincia dall’asilo. A suo avviso, infatti, la scuola non è altro che questo: «premiare la disciplina e l’obbedienza e punire il pensiero indipendente». Un quadro scoraggiante, non c’è che dire. Che fare?

Chomsky attacca senza mezze misure il libro, che ha avuto una fortuna enorme negli Stati Uniti, di Allan Bloom La chiusura della mente americana (Lindau, 2009) in cui il rimedio al collasso del sistema educativo americano è il ritorno alla lettura dei classici. Il metodo Bloom sarebbe, secondo Chomsky, votato al fallimento perché fondato sull’«assurda pretesa che esista un insieme di “grandi pensieri” che la gente colta seleziona affinché gli stupidi li imparino». Ma il fatto è che non basta individuare cosa leggere, bisogna insegnare come leggere, visto che «il semplice fatto di leggere non significa molto, se le nozioni acquisite non vengono integrate in un processo creativo». Queste considerazioni, che possono apparire di semplice buon senso, hanno per Chomsky una forte valore concettuale: rappresentano il grimaldello teorico con cui aprire un varco nei principi alla base del sistema educativo perché toccano da vicino la questione della natura umana.
Poiché creatività e libertà rappresentano il tratto caratteristico della nostra specie, il discorso di Chomsky sull’educazione ha profonde ricadute su un piano teorico più generale. Distinguendo tra sistemi educativi che mortificano la natura umana e metodi che la esaltano rispettandone le caratteristiche peculiari, il riferimento alla creatività è molto di più di una semplice dichiarazione di principio. È un punto importante per discutere una delle questioni teoriche che da sempre animano il dibattito sul pensiero di Chomsky: il legame tra le sue analisi politiche e le sue riflessioni sul linguaggio.
Rispetto alla questione delle «due anime» del suo pensiero, lo stesso Chomsky ha un atteggiamento ondivago. Il suo parere in Capire il potere è che tra linguaggio e politica esistano soltanto «sottili legami». Per un motivo semplice da esplicitare: se la questione dei rapporti tra linguaggio e politica è strettamente connessa al tema della natura umana, allora non è possibile dire molto circa questi rapporti, visto che quando «ci si addentra nel campo della natura umana, gli scienziati non hanno risposte da dare».

Sostenendo l’idea dei «sottili legami», tuttavia, Chomsky fa torto a se stesso: la scienza ha un accesso privilegiato alla natura umana perché è possibile una scienza del linguaggio e il linguaggio è per Chomsky, da sempre, il tratto distintivo degli individui della nostra specie – è ciò su cui si fonda la «differenza qualitativa» tra noi e gli altri animali.

La tesi di Chomsky, come è noto, è largamente ispirata al programma cartesiano: all’idea che, diversamente dalle macchine e dagli altri animali, gli esseri umani non sono determinati ad agire nel modo in cui agiscono – essi possono essere soltanto incitati o incoraggiati, mai costretti, a fare ciò che fanno. In Conoscenza e libertà. Linguaggio e politica (Einaudi, 1973), un vecchio libro utile a comprendere lo sfondo concettuale alla base di Capire il potere, la chiave della relazione tra linguaggio e politica è affidata all’umanesimo della natura umana professato da Bertrand Russell. Questa forma di umanesimo ha forti assonanze con uno dei principi cardine su cui, seguendo Wilhelm von Humboldt, deve poggiare ogni forma di insegnamento: l’idea che «ogni cosa che non sgorghi da una libera scelta dell’uomo e che sia solo il risultato di istruzione e direzione dall’esterno, non penetra nel profondo della sua autentica natura». È in riferimento a una concezione della natura umana di questo tipo che Chomsky guarda positivamente all’idea di costruire un sistema educativo «che incoraggi l’azione autenticamente umana, cioè quella che sgorga da impulsi interni».
Aderire all’umanesimo della natura umana è per Chomsky un modo per contrastare la visione comportamentista fondata sulla tesi della plasticità dell’individuo e la sua plasmabilità attraverso l’apprendimento e l’educazione. La battaglia contro la concezione comportamentista del linguaggio – che ha caratterizzato la prospettiva chomskiana sin dagli esordi – diviene in questo modo la battaglia politica e sociale contro una visione degli umani come organismi che, seguendo i precetti forniti da John Watson nel suo celebre libro del 1930, ogni educatore può plasmare a proprio piacimento. Appartenendo alla biologia della specie, i tratti specifici della natura umana non sono caratteristiche modellabili dall’esterno in maniera indefinita. La natura biologica degli umani è al tempo stesso la condizione che garantisce loro di fare ciò che fanno e il limite che impedisce di obbligarli a fare ciò si vuole che facciano.
Un antidoto formidabile all’idea che i programmi educativi possano essere interpretati nei termini della cura Ludovico.