Da quando è iniziata la Lunga Recessione, l’Istat constata il distacco crescente, in termini di reddito pro-capite, tra il Mezzogiorno e il resto del nostro paese. Ma i dati raccontano solo una parte della realtà.

E non sempre ci permettono di capire che cosa sta avvenendo nella vita quotidiana della popolazione meridionale. Alcune cifre dovrebbero essere integrate, altre debbono essere lette correttamente, con tutti i loro limiti. Per esempio, il reddito pro-capite se non lo esprimiamo in termini di potere d’acquisto non comprendiamo il reale divario in termini di ricchezza e povertà delle famiglie. Una famiglia operaia monoreddito che vive in un paesino delle aree interne del Sud, che è proprietaria di casa con un pezzetto di terra con orto e animali, ha una serie di legami sociali che consentono di usufruire di servizi alla persona gratuiti, e ha certamente un potere d’acquisto nettamente superiore a una famiglia operaia delle grandi città del Nord. Quello di cui soffre è la mancanza di un lavoro qualificato per i figli, di scuole e trasporti che funzionino, di servizi socio-sanitari efficienti. Il più grande danno al Sud durante questi dieci anni di crisi l’ha fatto lo Stato bloccando il turn over nella pubblica amministrazione, con una perdita di oltre 250mila posti di lavoro, e il taglio netto agli investimenti pubblici nelle infrastrutture che servono (altro che Ponte sullo Stretto per la cui progettazione/promozione sono stati spesi centinaia di milioni). Rispetto al 2007 il Mezzogiorno odierno ha subìto un netto arretramento nell’offerta dei servizi socio-sanitari, nei trasporti locali, nelle scuole che sono a rischio e fatiscenti, nelle università che hanno perso mediamente il 30 per cento degli iscritti.

L’emigrazione, soprattutto giovanile, è ripresa a ritmi che non si erano mai visti, nemmeno nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale. L’Istat parla di un milione di meridionali che negli ultimi venti anni sono emigrati nel Centro-Nord. Ma, si tratta di una cifra che sottovaluta decisamente il fenomeno: l’Istat guarda ai cambi di residenza, ma centinaia di migliaia di giovani meridionali hanno abbandonato il Sud senza cambiare la residenza. In diverse ricerche sul campo emerge un fenomeno migratorio ben più ampio e sconvolgente: possiamo stimare che due giovani su tre negli ultimi dieci anni hanno abbandonato il Mezzogiorno almeno una volta, e oltre la metà definitivamente. Alcuni, dopo il fallimento nell’esperienza migratoria sono rientrati a testa bassa e sono andati a rimpolpare l’esercito dei neet (not employement, education, training), altri vanno e vengono non solo verso il Nord I’Italia, ma verso il Nord Europa e persino l’Australia (l’emigrazione verso il quinto continente è la vera novità di questi ultimi anni).

Quello che, soprattutto, l’Istat non ci racconta è come è cambiato il rapporto tra i migranti e le famiglie di provenienza. Mentre negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso erano i migranti meridionali che mantenevano le famiglie di origine con le rimesse (oltre a concorrere a salvare la nostra bilancia dei pagamenti), oggi sono molte volte le famiglie meridionali che mantengono i figli nel Nord Italia o all’estero, non solo per studiare o specializzarsi, ma anche perché con i lavoretti non si sopravvive in questi territori. E sono le stesse famiglie, soprattutto a livello di ceto medio, che spingono i figli, fin dalle scuole medie superiori, a pensare di lasciare le terre del Sud perché, come si dice da queste parte«qui non c’è niente da prendere». Ed è questa la nota più triste che nessuna statistica potrà mai quantificare: la cifra che diventa un necrologio, la morte della speranza di una terra dove una volta i giovani gridavano «lottare per restare, restare per lottare».