Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari, ceroplastica del Settecento

 

La Natura è un’invenzione umana, e dunque può essere reinventata a partire da un dispositivo immaginifico come un museo. Da questo assunto l’artista Renato Leotta (Torino 1982) prende le mosse per trasfigurare Palazzo Biscari in Mondo Museo Archeologico del Reale ( fino al 31 agosto, a cura di Claudio Gulli e Pietro Scammacca), che fatichiamo a definire «mostra personale», perchè é già oltre questo concetto inerte.
Il palazzo-voliera tutto volute e riccioli barocchi è un’immagine di grazia e di potenza, e gli animali separatisi dal mondo, al chiuso della gabbia dorata della cultura, siamo noi. Questa rivelazione, in fondo beffarda, è suggerita con la grazia di un sorriso sardonico, quello del Principe di Biscari, quell’Ignazio Paternò Castello che nel 1758 diede vita, all’interno del palazzo di famiglia, a uno dei primi musei siciliani aperti al pubblico, il Museo Biscari. Un suo iperrealistico ritratto d’epoca rimpicciolito, in ceroplastica, ci accoglie, mostrandoci la perturbante capacità dello scultore anonimo di replicare le forme naturali, stravolgendole dal punto di vista delle dimensioni, come massima espressione dell’artificio tipico del barocco.
È questa un’accezione esemplificativa di ciò che intendiamo noi umani per oggetto culturale, che della artificiosa separatezza dell’uomo dal mondo, insieme alla percezione diacronica della storia, fa la sua essenza, con tutti gli esercizi di classificazione dell’esistente che trovano il loro tempio classico nel museo. Si può ridare unitarietà al mondo, decentrandosi come soggetti, a partire da un esercizio di rinominazione anti-specista, in cui naturale e culturale giacciono sullo stesso piano conoscitivo? la mostra a Palazzo Biscari è un tentativo che va in questo senso; e lo fa parodiando la tassonomia classificatoria scientifica, applicandola alla ineffabile molteplicità del reale, che sta sotto la soglia di attenzione esclusivamente umana.
In che modo si articola questo nuovo museo archeologico che aderisce al reale da una posizione decentrata, lo vediamo nella sezione dedicata alla luna (le altre sono focalizzate su elementi naturali, ibridando archeologia e scienze naturali); la «Gipsoteca», ospitata dentro un grosso armadio, espone le miniature (ecco che torna lo straniante artificio lillipuziano) di diverse spiagge modificate dal moto ondoso correlato ai cicli lunari. È una raccolta di quelli che si definiscono comunemente, con un termine oggettivante, «paesaggi naturali», intendendoli nel codice binario dell’analisi razionale, come altro-da-noi. L’espediente della riduzione di scala rivela quella proiezione umana che è il concetto stesso di paesaggio, inteso riduttivamente, per l’appunto.
La raccolta fotografica a partire dalla diversa luminescenza del plankton è anch’essa oggetto di collezionismo da parte dell’artista che qui si relaziona con una testa di giovinetto in marmo della collezione archeologica del Principe. Un’altra sezione è dedicata al cielo, con una cosmogonia di divinità appartenenti a diversi culti, presenti nelle raccolte archeologiche del Principe; di quest’ultimo vengono esposti in mostra alcuni testi a stampa come il Viaggio per tutte le Antichità della Sicilia edito ne 1781.
Si procede per l’infilata di sale e sotto la magnificenza barocca del salone dell’orchestra viene riproposto uno spazio museografico classico con il suo apparente ordine, fatto di teche che separano i manufatti di diverse epoche e provenienze, tra marmi antichi, vasi attici, bronzi di epoca romana, ceramiche e vetri. È l’aspetto rassicurante della materialità di ciò che definiamo «cultura», ma fuori dalle teche (fuori dall’ordine razionale si direbbe) troviamo altri oggetti, eccentrici rispetto agli artefatti; sono anch’essi plasmati, ma da forze geologiche non umane. Si tratta di bombe laviche ed altri reperti vulcanici che rimandano nelle forme all’apparato decorativo rocaille della sala, con una orchestrazione di assonanze linguistiche che va oltre i confini disciplinari, in un confronto continuo tra umano e non. Variopinti uccelli impagliati appollaiati sulle teche ci guardano dall’alto, con occhi di vetro; è lo straniante artificio tassidermico, che finge la vita.
Il vivente geologico, l’Etna, ritorna più avanti in una dimensione quasi domestica, l’intimità di un letto viene infatti a scontrarsi con l’apparizione, apparentemente incongrua, di una collezione di bombe laviche, disposte con i cartellini classificatori, direttamente sopra la seta del copriletto senape. Un’apparizione onirica, che si direbbe integri la dimensione inconscia del vivente, animato e inanimato che sia. Il magma come inconscio geologico portato alla visibilità della coscienza potrebbe spiegare la fascinazione e il legame che gli umani stabiliscono con i vulcani. Nelle stanze private, una raccolta di film in 16 mm dal titolo Fiumi, realizzati da Leotta nei siti archeologici e industriali di Megara Hyblaea, Gela e Roma rappresenta un ritorno all’elemento acquatico, a cui la memoria geologica del pianeta ci riconduce.
Facciamo ora un passo indietro, e torniamo all’inizio. Nella prima sala del percorso espositivo a fare da prologo si incontra un Indice, piccolo manoscritto rinvenuto negli archivi del Palazzo, tra gli appunti privati del Principe, in cui il museo-mondo, in forma ideale, è già presente. Una mostra dall’approccio circolare, senza un centro, ma con diversi livelli di lettura e connessioni, casuali e non, che parlano a ciascun visitatore, in base all’esperienza che egli ha del mondo.
La mostra è frutto della collaborazione con diverse istituzioni museali che hanno prestato le opere, a partire dal Museo Civico del Castello Ursino, in cui nel 1934 confluì la collezione del Principe di Biscari, che in occasione della mostra è in parte tornata alla sua sede originaria.