Già da qualche anno, dai tempi di Ostro dei Lay Llama – che mostrava un orizzonte ultravioletto sulla superficie violacea del vinile uscito per Rocket Recording in un momento eccezionale per la psichedelia italiana: era il 2014 e vi risuonava, celeste e celestiale, il capolavoro dei Julie’s Haircut, Ashram Equinox –, l’astro di Gioele Valenti aleggia sull’ecosistema dell’indie e della psichedelia contemporanea seguendo quella traiettoria proficua che unisce l’Italia al Regno Unito e vede brillare, nei cataloghi delle etichette londinesi, gruppi italiani come i New Candy, i Julie’s Haircut, i Sonic Jesus, ecc., oltre alle molteplici incarnazioni di Valenti tra Lay Llama appunto, Juju, Josefin Ohrn e ora Herself.
Una natura proteiforme quella di Valenti, che si muove tra prospettive diverse e complementari: una costellazione fatta di rock psichedelico, elettronica, kraut, folk, a cui è funzionale il suo polistrumentismo, la volontà di esprimersi secondo timbri molteplici, attraverso approcci strumentali sfaccettati, tra ritmica ancestrale, quasi tribale (come in Ostro), insorgere di rif, arrangiamenti raffinatissimi mentre risuona come un vento la voce.

È IL CASO di Juju che in quattro anni ha pubblicato tre dischi magnifici, l’ultimo dei quali, Maps and Territory, riecheggia un titolo di Houellebecq, con cui Valenti, con quel panorama di problematizzazione dei significanti, pare condividere certa tensione linguistica e teorica. Cioè c’è un’idea del linguaggio musicale dietro questo prisma di approcci, visioni, prospettive, che tende a voler scoprire ogni volta coerentemente territori di contaminazione e di sperimentazione armonica, come ad esempio in Play The Game, da Our Mother Was A Plant, una delle cose più straordinarie ascoltate negli ultimi anni, in cui da un’attesa rimuginata d’elettronica, rif flautati, ondulanti sotto, tra i bassi fondi, incalzanti, e note larghe, liriche di piano s’arriva alla dance, in una prospettiva in cui si stanno dibattendo già da un po’ gruppi come gli Gnoomes, i Vacant Lots o recentemente i Flying Moon in Space. Ma poi ci si imbatte in Rigel Playground di Herself e la musica cambia, si scioglie in rimembranza, divagazione di lontananza che si situa nel metabolismo della canzone, anche per via dell’apporto di Jonathan Donahue dei Mercury Rev, esperto del canto, del motivo immediato, eppure di sfuggenti romanticismi, intimismi.

COSÌ IL DISCO è stato registrato tra Palermo e New York, assemblato, curato finemente da James McKenna e adesso stampato in vinile (rosso) dall’etichetta inglese Dirter Promotions, la stessa di Faust, Current 93, Nadja, ecc.. Rigel Playground, alla prova della puntina, suona definito, caldo, come in un tramonto estivo, allontanandosi dal mare, dai campi, con lei, con Lei-stessa a fianco che tace e cade in quel calore e in quella luce catastrofici. E ci si ritrova dalla parte degli Sparklehorse oltre che dei Mercury rev e di Herself, alla fine, che è una dimensione nostalgica in cui il crepuscolo, l’intima, fragile durata della luce non manca di abbagliare e di ardere.