Che idea abbiamo della natura? Che idea abbiamo di quei santuari che conservano e proteggono la natura? Scrivendo un viaggio nei luoghi e nel tempo come è stato Giona delle sequoie, contrappunto alla mia esistenza per un decennio, ho intravisto alcuni barlumi dell’idea che le diverse generazioni di uomini e donne di buona volontà, i primi decisamente più numerosi, hanno manifestato nel corso degli ultimi duecento anni di quell’involucro potenziale che è il «parco», la «riserva».

L’IDEA CHE MOLTI DI NOI NE CONSERVANO in questi anni non è sempre stata soltanto quella. Anzitutto c’è voluto un bel salto dal passare dall’idea che l’uomo si debba proteggere da tutto quel che c’è la fuori, all’idea di essere colui o coloro che proteggono qualcosa: una specie a rischio di estinzione, un bosco fragile, un albero vecchissimo, millenario, l’ambiente che circonda uno stagno, la cima di una montagna, e così via. E ogni epoca ha messo di fronte le persone a nuove sfide e nuovi pericoli. Insomma, così come cambiano le idee e le pratiche che gli umani adottano per rendere il proprio mondo migliore, così è cambiata anche la visione dei luoghi recintati dove lasciare che la natura sia quella che è sempre stata, ma senza un intervento invasivo dell’uomo.

E QUINDI PROTEGGIAMO ANCHE I GRANDI plantigradi, proteggiamo l’orso, quei pochi rimasti, proteggiamo le sequoie di duemila anni, proteggiamo lo stambecco. Mentre nella seconda metà del diciannovesimo secolo nascono i primi parchi in giro per il globo – a parte l’eccezionale Bogd Khan Uul in Mongolia, istituito nel 1783, l’antesignano – fra Stati Uniti d’America, Australia, Canada e Nuova Zelanda il pensiero dominante potrebbe essere riassunto in queste righe scritte da uno degli architetti più noti del proprio tempo, Frederick Law Olmstead (1822-1903), assunto da alcune compagnie private e inviato nel 1865 nei territori interni della California, a noi noti oggi come valle di Yosemite.

I GRANDI PARCHI URBANI DELLE CITTA’ statunitensi – Central Park e Prospekt Park a Nuova York, Jackson Park a Chicago, fra i tanti – sono opera sua. Olmstead viene spedito nelle montagne californiane per studiare la situazione e relazionare sulle potenzialità di sfruttamento delle risorse disponibili, che vuol dire miniere, e vuol dire legname. Il resoconto di Olmstead non corrispose alle aspettative della committenza e finì in fondo ad un cassetto fino al 1952, in un mondo oramai completamente diverso, quando venne pubblicato dalla Yosemite Association, braccio editoriale di un team di persone che cercavano di rendere sempre più conosciuta e disponibile la natura preservata dal parco nazionale. «È stato in una delle ore più buie, prima che Sherman iniziasse la marcia su Atlanta e Grant il suo passaggio attraverso le terre selvagge, quando i dipinti di Bierstadt e le fotografie di Watkins, entrambi prodotti in tempo di guerra, hanno dato alle genti sulla costa atlantica qualche idea della sublimità di Yosemite e della maestosità dell’adiacente grove di sequoie, è stato allora che si è percepito il pericolo che certi scenari diventassero proprietà privata, e che, per il cattivo gusto, il capriccio o le esigenze di alcune speculazioni industriali dei proprietari, il loro valore per la posterità fosse danneggiato.

AL FINE DI ASSICURARE QUESTI LUOGHI contro ogni pericolo il Congresso ha emanato una legge che prevede che tali proprietà debbano essere escluse dal dominio delle terre pubbliche e destinate per sempre alla villeggiatura e alo svago della popolazione, sotto l’amministrazione di un Consiglio dei Commissari nominato dal governo dello stato della California».

Ora, noi sappiamo che così è stato per molti anni, che i parchi si sono sempre più strutturati, che la conservazione è andata di pari passo con l’accoglienza di un crescente numero di turisti finché, l’attuale turismo massificato non ha iniziato a mettere in crisi la validità di questa concezione. Attualmente ci si interroga se i ritmi di frequentazione nei periodi estivi, anzitutto, non rischino di minare le fondamenta del conservazionismo. I grandi parchi naturalistici sono oggi alternativa allo struscio domenicale, e non tutti coloro che ci vanno si guardano intorno.

SEMPLICEMENTE PORTANO i propri discorsi quotidiani – le ripicche, il denaro, il lavoro, i dolori, gli acciacchi, e così via – su una montagna, e meglio se si può salire in fretta, magari prendendo un ascensore. Non si tratta di moralismo, ma di trovare un senso in qualcosa che non nasce per diventare un luna-park, ma che è lì per proteggere gli ambienti che dovrebbero restare intatti, o quasi, e non costantemente sfruttati per fini commerciali. Tanto varrebbe stracciare i documenti fondativi dei parchi e assegnare questi stessi luoghi nelle mani di imprenditori si spera capaci. La natura insomma si deve sì adeguare ai nostri cambiamenti ma va anche conservata, e le attuali politiche non sembrano più reggere.

SARANNO FORSE I PARCHI DEL FUTURO riserve per pochi? L’accesso sarà in una certa misura regimentato, per finire come quella curiosa scena di Into the wild di Sean Penn, il film, lo ricordate? Il protagonista, in fuga dalla modernità e dai meccanismi della società, vuole solcare le acque del fiume che attraversa il Grand Canyon, all’ufficio della riserva cerca di prenotare il proprio turno e scopre che dovrà attendere molti anni prima di poterci andare. Così, da buon anarchico, adotta una diversa strategia.

ANCHE I NOSTRI FIGLI E NIPOTI, NEL 2061, dovranno prenotare un anno prima la visita a certi lembi di foresta sulle Alpi? O il trekking nel cuore dell’Ogliastra e della Barbagia, due anni avanti?