Calma ed eleganza sono i segni distintivi del suo carisma e l’interlocutore ne viene catturato all’istante prima ancora di sentirne la voce: la figura sottile, gli abiti sempre neri portati con leggerezza e semplicità, lo sguardo sorridente e dolce, come le movenze, sono un’anticipazione della sua arte. E, come solo a un vero maestro si addice, lascia trasparire senza far pesare la grandezza di una vita dedicata a creare.
Kazumasa Nagai, nato a Osaka nel 1929, è uno dei padri del graphic design giapponese contemporaneo, conosciuto nel mondo per i suoi animali immaginari. Un personaggio simbolo che ha presieduto per tanti anni quelle che oggi sono le più importanti istituzioni e associazioni di graphic design nate negli anni Sessanta, quando partecipò alla fondazione del Nippon Design Center, tutt’oggi attivo nel lussuoso quartiere di Ginza, nel cuore di Tokyo, con oltre centocinquanta creativi, studi professionali di nomi come Ken’ya Hara, una grande biblioteca specializzata in arte e design sviluppata intorno a un tavolo bianco rotondo di dimensioni enormi. Dal 1994 al 2000 Nagai ha presieduto anche la Japan Graphic Designers Association (Jagda), fondata nel 1978 dal «boss» (è chiamato proprio così) della grafica Kamekura Yusaku, a cui è dedicato il più prestigioso premio che Nagai stesso si è aggiudicato con uno dei manifesti della serie Life.
A quell’importante riconoscimento ne sono seguiti tanti altri nei sessant’anni di carriera durante i quali ha realizzato oltre mille poster disegnati di suo pugno, insieme a marchi di aziende rinomate in tutto il mondo e a layout di libri e cataloghi. Una vita dedicata alla grafica, per la prima volta riassunta in una selezione corposa di cinquecento manifesti, intervallati da riflessioni e pensieri, pubblicata con il titolo Nagai Kazumasa Poster Museum (Rikuyosha), sotto la direzione grafica del figlio Kazufumi, anch’egli grafico affermato e noto per alcune campagne pubblicitarie legate a marchi tradizionali. Tale collezione si trasformerà in una retrospettiva, prevista per l’estate del 2014 presso il Museo d’arte di Toyama.
Abbiamo sfogliato con Kazumasa Nagai, durante una visita al suo studio, le bellissime immagini a piena pagina che alternano geometrie a forme della natura inventate, bianchi e neri a colori brillanti.

Maestro Nagai, che cosa significa per lei questa esperienza?

È un momento importante che segna sessant’anni di carriera e allo stesso tempo mostra il cambiamento della nostra società: dai primi manifesti fatti di geometriche semplici via via divenute più complesse, fino alla seconda fase della mia esistenza, dedicata ad animali e piante. Credo che nella vita ognuno di noi debba continuamente rinnovarsi.

Ci può spiegare quando è scoccata in lei la scintilla della grafica? in quale momento ha deciso che nella vita avrebbe intrapreso questo mestiere?

Ho iniziato a lavorare come grafico nel 1951 presso la società Daiwato, dopo aver abbandonato l’Università d’arte di Tokyo. Erano gli anni della rinascita successivi alla guerra e la grafica aveva un forte ruolo sociale. Grazie a Kamekura Yusaku, nacquero le prime associazioni nazionali di arte pubblicitaria e realizzammo le prime mostre di grafica nei grandi magazzini della città.

Tre quarti della sua produzione riguarda la natura. Come mai questa passione?

Fu a partire dagli anni Ottanta che sentii la necessità di cambiare completamente rispetto a quanto fatto fino ad allora. Nel 1987 disegnai la serie di manifesti Japan con animali come soggetto, legati alla tradizione giapponese: una tartaruga dalla coda lunga e millenaria, una rana, un pescegatto, che segnò il passaggio tra la pura decoratività geometrica, pur ancora presente, e la fase successiva dedicata alla natura.
Erano anni in cui si cominciava a parlare dei problemi ambientali, della minaccia di estinzione di specie animali e vegetali, per cui avvertii il bisogno di far sentire la loro presenza.

Lei, tuttavia, iniziò facendo uso di geometrie, linee e disegni astratti. Un esempio di questa attività è uno dei suoi primissimi poster che realizzò per la Olivetti nel 1957. Una composizione semplice, realizzata con i colori primari e bande orizzontali piatte che richiamano l’idea dei tasti della macchina per scrivere…

Sì, negli anni Cinquanta – e fino agli anni Ottanta – si prediligeva una composizione di linee e forme geometriche, fatte con squadre e compassi, che sfruttavano l’illusione ottica come elemento decorativo per attrarre l’attenzione del cliente. Così furono impostate anche le campagne pubblicitarie dei grandi marchi legati alla fotografia e alle lenti.

Ad un certo punto, la svolta: lei cominciò a disegnare animali di tutti i generi, con qualunque declinazione, con fantasie e incroci: uccelli, pesci, volpi, lupi, balene e tanti altri non definibili tra le specie…

Fu una svolta improvvisa, una sorta di nuova consapevolezza. Vole

vo realizzare qualcosa che non avevo fatto nei precedenti sessant’anni e l’ispirazione arrivò dalla natura. Cominciai a disegnare a mano animali, piante, con il desiderio di trasmettere la loro forza vitale, l’esistenza di tutti gli esseri viventi del pianeta.

Quando lei disegnava animali, cosa rappresentavano gli altri graphic designer giapponesi?

Diversi designer si sono avvicinati al tema dell’ambiente, ma nessuno si è dedicato esclusivamente al soggetto di animali ed esseri viventi, né si è avvicinato alla mia modalità di rappresentazione.

Una curiosità: come mai non si è concentrato su animali veri ma su un bestiario «fantasioso»?

I miei animali non vogliono essere un ritratto della forma, bensì dell’anima, della vita insita in ogni essere. Mi appaiono così nella testa e li disegno. Sono il simbolo della vita e la emanano spesso attraverso un alito, una pioggia di piccoli semi, spore, animaletti che si diffondono ovunque nell’atmosfera.
Un piccolo germoglio che spacca una roccia ed esce all’aria, un fungo che emana una scia di infinite spore nell’aria, oppure animali composti di tante parti di animali diversi che ne contengono altri o che li originano in forme infinite: una tigre con la coda a uccello, un elefante con ali di libellula, un cinghiale da cui si moltiplicano decine di cuccioli….

Quanti sono alla fine i suoi manifesti dedicati alla «fauna»?

Di un migliaio di poster che realizzato, circa la metà sono di animali e natura. Sola la serie Life conta centotrenta poster. A questa, si aggiunga la serie Save me please, dedicata alle specie in estinzione, tutt’ora in produzione e i manifesti per I’m here, la campagna commissionata dalla Jagda nel 1992 a cui hanno partecipato tutti i più grandi artisti.

Nella sua lunga carriera, lei ha cambiato spesso tecnica o, co

munque, ha fatto ricorso a più tecniche di design insieme…

Bisogna partire sempre da zero per costruire e per rinascere. Per questo, continuo a cambiare il mio stile, realizzando serie diverse pur sullo stesso tema. Tutte le mie opere sono comunque disegnate a mano con la penna a china, linea dopo linea, punto dopo punto, partendo dal basso e infittendo sempre più il segno dove necessario. Solo alla fine, il disegno di piccole dimensioni viene trasposto graficamente con le nuove tecnologie nel formato del manifesto. Alcune serie riportano la sagoma semplificata e monocromatica dell’animale, evidenziandone solo gli occhi per contrasto con lo sfondo, altre selezionano esclusivamente il muso dell’animale, o alcuni elementi distintivi, come la coda o le orecchie….

Quanto tempo impiega a realizzare uno dei suoi poster?

Tanto, tantissimo tempo. A volte, non riesco a stare sempre sulla stessa opera e mi dedico a un ciclo differente. Per completare una serie posso impiegare anche un anno.

Chi sono i suoi principali committenti?

In passato i grandi marchi commerciali. Uno dei manifesti a cui sono più affezionato è quello per la birra Asahi (1965) fatto utilizzando i tappi che, con i raggi rossi e bianchi, ricordano la bandiera giapponese. Oggi sono soprattutto occasioni come simposi, mostre d’arte, eventi sportivi. Sono manifesti d’arte.

La tecnologia in tutte le sue estensioni e diavolerie riuscirà mai a sostituire la mano dell’uomo?

Mai. Oggi si fa tutto tecnologicamente, dall’inizio alla fine. Ma se perdiamo la manualità finiamo per smarrire anche la capacità di comunicazione dell’animo umano. È difficile, per quanto bravi si sia, riuscire a esprimere la forza vitale. Le tecnologie si possono applicare,

ma come completamento.

Ci sono giovani che la seguono nella sua arte o che, magari, la copiano?

(Sorride). Ho molti giovani intorno, accolgo spesso ragazzi che vengono a vedere il mio lavoro, parlo con loro, ma non insegno.
Ultimamente, sono tante anche le ragazze che si avvicinano al mondo della grafica e credo che da qui in avanti gran parte di loro otterrà risultati ottimi.

Si è mai ispirato a qualche artista classico in particolare? La sua arte ricorda alcuni dipinti indiani…

«Sì, è vero… Mi affascina e mi ispiro piuttosto all’arte primitiva. Mi piace particolarmente anche Ito Jakuchu, un pittore del Settecento che dipingeva animali e piante con una accuratezza incredibile per forme e colori».

In tutte le sue opere è palpabile la sensibilità sui temi ecologici e ambientali. Per lei è impegno, ma per molti una moda, non crede?

Si parla molto di ecologia e la situazione del pianeta appare sempre più grave. Bisogna arrivare a utilizzare nuove energie rinnovabili ricavate dal vento, dal sole, dall’acqua, ma sono ancora tutte troppo costose. Tuttavia, è questa la strada da percorrere.

Ovvio che, a questo punto, le chieda che cosa pensi lei del nucleare nel suo paese…

Alla fine il Giappone, purtroppo, è ricordato per gli eventi legati alle centrali nucleari di Fukushima. Non tratto il tema del nucleare direttamente, l’ho fatto nel 1987 con il poster dedicato alla commemorazione di Hiroshima per la serie Hiroshima Appeals (che ogni anno un grafico realizza e dona alla città). Sono i miei animali a parlare, con lo sguardo, con gambe e arti che si muovono e lasciano il segno.