«Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera , che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese. Codesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto patisce; e quel che distrugge, non gode e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quel che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi quell’islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa».

Le righe che precedono sono le ultime battute del dialogo leopardiano “Della Natura e di un Islandese” (Operette morali). Si parte dal «perpetuo circuito di produzione e distruzione», si arriva alla mummia contenuta in un Museo di non si sa quale città d’Europa. Vedeva lontano il nostro poeta. (L’Islandese che girava il mondo per sfuggire alla Natura finisce per caderle in bocca, come lo scoiattolo che crede di scappare finisce inghiottito dal serpente a sonagli).