La scrittura di Giovanna Rosadini (Genova, 1963) è sinonimo di dolore e pervicace sopportazione. Dal 2008 ad oggi sono state pubblicate quattro raccolte di poesie, di cui le precedenti, premiate e apprezzate, sono Il sistema limbico, Unità di risveglio e Il numero completo dei giorni. Fra i diversi solchi che segnano la terra della poesia dei nostri giorni, ne esiste uno molto profondo, che vede il poeta come un autentico esploratore della parte più dolente e lancinante dell’esistente, una spugna che si imbeve di ogni manifestazione catramosa della realtà e si pone come filtro, specchio capace di rimandare altrove, all’attento occhio di un lettore scrupoloso, la descrizione più chirurgicamente precisa ma, inevitabilmente, contraffatta, della reale sofferenza del vivere. La lunga linea che precede queste nostre voci contemporanee passa per la liturgia quotidiana di nomi autorevoli, quali, ad esempio, le anglo-americane Emily Dickinson, Anne Sexton e Sylvia Plath nonché Alda Merini, di cui non a caso la Rosadini ha curato l’antologia einaudiana, Clinica dell’abbandono.

La poetessa siede accanto al letto della disperata condizione della fragilità umana, ne ascolta e registra il respiro affannoso, misura quel che accade fuori e lo confronta con quel che accade dentro: «Ho corde invisibili tese fra le giunture / acciaio che flette e chiude le membra / e piega il corpo come una camicia / appena stirata». Oppure: «Dove avrò mai trovato le risorse / per fare fronte a tutto questo // Anche se si potrà parlar di guarigione, / si tratterà comunque di approssimazione», estrapolazioni da Unità di risveglio.

Apparentemente con le liriche incluse in Fioriture capovolte (Einaudi), la Rosadini sembrerebbe fare un passo più in là, uscendo dalle stanze dell’afflizione per immergersi in una contemplazione del movimento naturale, fra fiori, fronde, colori, venti, nominazione dei diversi aspetti e tentativi del mondo, estinzioni e rinascite. Immergendosi in questo cantico ci si rende conto che la poetessa è caparbiamente ammiratrice di una vera e propria natura dolens, tanto che si potrebbe eleggere a manifesto quell’osservazione emblematica ed epocale del filosofo Andrea Emo: «Le cose in sé sono mostruose perché sono e non sanno di essere; ignorano la loro solitudine e la nostra» (dal Quaderno 229, 1960).

Ma, tra un respiro trattenuto e uno sguardo congelato, il sangue inchiostrato della Rosadini sa farsi talora riposante e riconciliante: «Il vento mi parla, è tornato, mi porta le tracce / di un altro alfabeto, e nuvole gravide / e lame di luce, nella stagione nuova Tu che adesso mi sei voce, controcanto, / non indulgere ma resta, e lascia tempo». Ed è proprio una costante preoccupazione al transitare del tempo che scandisce l’oratoria dell’intera raccolta, come si evidenzia anche in questo passaggio: «Possiedo sentieri, percorro / stanze invisibili dove albergo l’attesa, / creatura indifesa – e sarai tu, soglia / di millenni, sfregio, / la mia ricompensa».

Nelle composizioni si mescolano osservazioni al limite del minimalistico, «piccinerie» che possono ricordare un certo approccio buffoniano, e penso ad esempio alla corolla di poemi dal bel titolo Fossili domestici, ponderate osservazioni dal tono filosofico-naturalistiche (la parte Lo spazio bianco), nonché intrusioni occasionali di pour parler, tesoro capitale quest’ultimo di non poca poesia cosiddetta lombarda, fecondissima nelle ultime generazioni, così prossime, quantomeno nelle intenzioni, ad un certo dramma teatrale, ad un teatro in versi nel quale rifondare la realtà tutta, materica e intellettuale.