Non si tratta di persone ma di persone che filmano se stesse. È questo il filo conduttore dei lavori dell’artista e regista sperimentale del Québec Dominic Gagnon, il cui ultimo film, Of the North, esplora lo sguardo che le popolazioni Inuit del Canada del nord rivolgono a se stesse attraverso i video postati su YouTube. Dalla caccia alla balena e al suo smembramento su una spiaggia ai video soft porn, dai rap che fanno il verso a quelli americani urlando la ghettizzazione degli Inuit alle canzoni gutturali della famosa cantante indigena Tanya Tagaq, che però ha fatto causa al regista perché rimuovesse dal film la sua musica.

 
Fin dalla sua prima proiezione al Festival internazionale del documentario di Montreal, Of the North ha infatti sollevato un focolaio di proteste fra chi lo ha visto come una stereotipizzazione razzista delle popolazioni indigene canadesi, messe in cattiva luce rinforzando i pregiudizi su di esse.

 
«Preferirebbero un film generalista, con più elementi positivi» osserva Gagnon, che invece porta spietatamente sullo schermo i video amatoriali di persone che si ubriacano, vomitano, fanno del male agli animali ma osservano anche la violenza fatta sulla loro terra dalle trivelle petrolifere e le industrie. Il punto non è infatti costruire uno stereotipo né – con le parole di Gagnon – «essere oggettivi». Quanto piuttosto mostrare lo sguardo, seppure parziale, di un mondo marginalizzato e preda degli effetti più nefasti della globalizzazione, economica, culturale.

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Dopo aver vinto il premio per il lungometraggio più innovativo al Festival Visions du Reél di Nyon lo scorso anno – e in questa edizione il cineasta è stato protagonista di una retrospettiva – oggi il film viene presentato a Napoli, all’interno di Astradoc, rassegna nata nel 2009 con la riapertura della sala del centro storico Academy Astra, che da diversi anni propone al pubblico napoletano una accurata selezione del cinema documentario nazionale e internazionale. Nel tempo Astradoc ha creato una bella rete di spettatori (proiezioni sempre affollatissime) proponendo oltre ai film incontri coi registi e laboratori – è il caso di Gagnon che ha tenuto una masterclass.

 
L’ orizzonte di Gagnon è una terra desolata, fisicamente e moralmente. Un filo rosso accomuna infatti Of the North ai lavori precedenti del regista, e non solo in virtù del fatto che sono montati a partire da found footage, video trovati tra i milioni di upload su YouTube. Nella precedente «quadrilogia del web» Gagnon indagava un mondo di paranoie frutto anch’esse della marginalizzazione e dell’isolamento sociale. In RIP in Pieces America erano i fanatici del complotto a stelle e strisce, con le loro armi bene in mostra. In Hoax Canular erano i teenager, soprattutto americani, convinti che l’apocalisse sarebbe giunta nel 2012 come predetto dai Maya. Un mondo caotico di reietti ed esclusi, di cui fanno parte anche i «protagonisti» di Of the North.

 
Come è nato il progetto del film?
Nel 2012, quando ho cominciato a lavorarci, si parlava molto dello sviluppo industriale del Canada del nord e dell’Artico in generale. C’era una forte propaganda: si diceva che le industrie minerarie, lo sfruttamento delle risorse da parte di russi e cinesi fossero una cosa positiva per la popolazione di quei luoghi. Io volevo realizzare un contrappunto a questa narrazione. Of the North è una sorta di ritratto delle persone che lavorano per quelle compagnie, realizzato cercando su internet immagini che contraddicessero la propaganda. Anche per questo nel film ci sono molte riprese illegali, fatte dai lavoratori nelle piattaforme petrolifere che in realtà non si potrebbero filmare.

 
Anche i suoi film precedenti mostrano un universo di emarginazione.
Il mondo in cui viviamo è caratterizzati da una crescente comunicazione mentre nel concreto si presta sempre meno attenzione agli altri. Ci sono persone su internet che vorrebbero esprimersi, denunciare delle ingiustizie, ma nessuno le ascolta. I video che uso non sono virali: alle volte hanno solo cinque o sei visualizzazioni; per me è come dare loro una seconda chance sul grande schermo. Al cinema le persone guardano il film fino alla fine, su internet è molto diverso: si presta attenzione per pochi secondi e poi ci si sposta su qualcos’altro.

 
Come utilizza i «filmati trovati» che compongono i suoi film?
Per cercarli uso i tradizionali motori di ricerca, come Google e YouTube. Ma ne sovverto la natura: invece di richiedere i risultati con più visualizzazioni cerco quelli meno popolari, e così ho accesso ai reietti, alle persone che non hanno seguito neanche su internet, un luogo in cui normalmente ognuno può dire la sua. Il montaggio invece è un processo molto personale, che ho sviluppato nel corso di oltre vent’anni. Connetto tra loro le immagini sulla base della «qualità» piuttosto che del contenuto, ottenendo così una sorta di poesia visiva che ha una forte valenza politica.

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«Of the North» ha suscitato un acceso dibattito.
Non era il mio scopo sollevare un simile polverone. Ma il fatto che sia accaduto mi fa pensare che il film sia stato un successo. Non in termini economici, ma perché ha centrato il suo obiettivo. Prima non si era mai parlato così tanto di questi argomenti, di cultura Inuit, dello sterminio dei popoli del nord, di accordi post coloniali e così via. Le persone si scaldano molto quando ne discutono. Ho ricevuto minacce fisiche, legali, di tutti i tipi. Il che vuol dire che il film ha fatto un buon lavoro.

 
In un’intervista ha detto che non voleva «proteggere» gli Inuit in modo paternalista.
Se si vuole guardare realmente una popolazione, in modo diretto, non si può avere la pretesa di proteggerla. Invece vedo molte persone che pretendono di aiutare gli Inuit ottenendo il risultato opposto: non danno loro una voce ma gli dicono cosa fare. Non bevete, non fumate, non usate le vostre armi, non uccidete gli animali, non date da mangiare ai vostri figli certe cose. Io preferisco guardarli direttamente negli occhi e prenderli per ciò che sono invece che cercare di proteggerli o di preservare la loro immagine. O meglio quella che noi abbiamo di loro.

 
A cosa sta lavorando adesso?
Of the North è la prima parte di un progetto più vasto che comprende anche il sud, l’est e l’ovest. Al momento sto preparando un film che si chiama Going South e che tratta il turismo ai tropici. Ancora una volta si parlerà dei rapporti post coloniali tra visitatori e visitati.