Lo spillover, il salto di specie che ha «ammalato» il pianeta ha messo definitivamente al bando la visione antropocentrica della vita sulla terra. Alcuni se ne sono accorti solo in questo nefasto anno, ma artisti, architetti e designers avevano già profeticamente cominciato a immaginare una politica solidale di inclusione, reimpaginando – almeno utopicamente – i confini protervi del nostro abitare. È così che è nata Future Assembly, nel mezzanino del padiglione centrale dei Giardini, rassegna collettiva all’interno della 17/a Mostra internazionale di architettura, scaturita dalla collaborazione tra lo Studio Other Spaces e altri sei «co-designers», insieme per affinità elettive.
Lo Studio Other Spaces è una creazione dell’artista Olafur Eliasson e dell’architetto Sebastian Behmann sbocciata a Berlino nel 2014, che sperimenta traiettorie multiple a partire da un approccio olistico. Questa volta lo sguardo sulla società si rigenera attraverso l’«assemblea» indetta a Venezia, che dopo le giornate di preview sarà da sabato 22 attraversabile da tutti i visitatori.
 «Future Assembly» interagisce con la domanda lanciata dal curatore della Biennale di architettura Hashim Sarkis, «How will we live together?», come vivremo insieme?
Olafur Eliasson: Possiamo affrontare quell’interrrogativo spazialmente, artisticamente, intellettualmente e politicamente, andando oltre l’umano e dimostrandoci sensibili alle relazioni simbiotiche che sono alla base dell’esistenza. Io e Sebastian Behmann, soci fondatori di Studio Other Spaces, stiamo collaborando per questa occasione con Paola Antonelli, senior curator di Architettura e Design al Moma; Caroline Jones, docente di Storia dell’arte al Mit; Hadeel Ibrahim, attivista; Kumi Naidoo, ambasciatore di Africans Rising for Justice, Peace and Dignity; Mariana Mazzucato, docente e diretttrice dell’Institute for Innovation and Public Purpose all’University College di Londra; Mary Robinson, che presiede The Elders e insegna Giustizia climatica presso il Trinity College di Dublino.
In qualità di co-designer del progetto, crediamo che sia urgente dissolvere i confini immaginari delle nostre esistenze individuali e riconoscere che siamo, di fatto, invischiati con entità viventi e non viventi. Abbiamo riflettuto sulla domanda ispirata dalle Nazioni Unite: come potrebbe essere un’assemblea multilaterale del futuro?
Sebastian Behmann: Immaginare futuri possibili ci impone di estendere le nostre definizioni di coesistenza e collaborazione per includere l’oltre-umano. Inizialmente eravamo stati invitati a sviluppare un concorso, ma non crediamo nelle competizioni. Le sfide che ci attendono possono essere risolte solo con sforzi di collaborazione tra esseri umani e discipline professionali estese ai non umani. Abbiamo quindi invitato tutti i partecipanti alla Biennale a proporre «soggetti interessati» oltre-umani. Sono rappresentati attraverso una rete di proiezioni, immagini, filmati e registrazioni audio. Lungo le pareti, c’è la linea temporale More-than-human che esamina i tentativi di riconoscere e garantire i diritti della natura lungo l’arco dei 75 anni di storia della Carta dell’Onu. Ma cosa porteranno i prossimi 75 anni? È importante mostrare i progressi compiuti e quelli non realizzati. Ad esempio, abbiamo celebrato l’evento quando i fiumi Gange e Yamuna hanno ottenuto una «individualità» nel 2017, anche se quella decisione è stata revocata tre mesi dopo dalla Corte Suprema dell’India.

Il concetto di «spazio pubblico» cambierà dopo la pandemia?
Olafur Eliasson: Lo spazio pubblico viene continuamente ricreato. Non può essere dato per scontato, non è risolto. La pandemia ci ha costretti a riconsiderare le nostre azioni e ha portato all’estremo il modo in cui utilizziamo lo spazio pubblico e stiamo insieme. Durante il distanziamento, ho lavorato con il mio amico Andreas Roepstorff su un sito web, chiamato We used to, dove le persone possono riflettere sulla loro esperienza biografica e sociale durante la pandemia (www. weused.to/ ). È un tentativo di raccogliere idee su come ci siamo trasformati. Anche prima dell’emergenza sanitaria, tuttavia, lo spazio pubblico, quasi ovunque, era ormai altamente razionalizzato e regolamentato. Abbiamo perso il mercato indisciplinato, il disordine che è spesso associato alla vivacità e alla vita stessa. L’unico momento in cui il paesaggio urbano assume una nuova dimensione è quando ci riuniamo per manifestare o per festeggiare. La strada dovrebbe essere un luogo di incontro per le comunità. Judith Butler la definisce «un bene pubblico»: dobbiamo prendercene cura – come pianificatori urbani, politici locali e come utenti. A prescindere dalla pandemia, nel mondo le persone si stanno anche interrogando su quali storie meritino di essere commemorate, rimuovendo i monumenti in contrasto con gli ideali che le nostre società sostengono ora. Infine, è necessario superare l’approccio esclusivo allo spazio pubblico.

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Qual è il potere dell’immaginario collettivo e il ruolo dell’architettura in una prospettiva antispecista?
Olafur Eliasson: Quando parliamo di acquisire una prospettiva multispecie, non si tratta solo di rappresentare l’altro non umano, ma di sfidare la nostra relazione insensibile con il mondo e riconoscere i limiti dei nostri orientamenti. Come mammiferi somigliamo a «erbacce erette», come ha sostenuto il biologo Lynn Margulis, perlopiù nulla di buono. Riconoscendo che le nostre vite sono inestricabilmente legate a ciò che ci circonda e con strutture e sistemi che si estendono ben oltre il nostro contesto locale, apprendiamo che siamo tutti vulnerabili. Agiamo e interagiamo in situazioni definite da incertezza.
Sebastian Behmann: Come architetti è nostra responsabilità imparare a collaborare veramente con i nostri tanti amici oltre-umani. La scienza conosce bene gli intrecci tra specie diverse e con l’immaginazione possiamo trasformare ciò che sappiamo in una strategia che preveda un posto per tutti, rispettando le molte temporalità e modalità di esistenza del mondo.
È anche importante ragionare storicamente. Siamo abituati a pensare che l’architettura sia influenzata dal passato, ma quello che facciamo oggi è molto più connesso al futuro. Siamo diventati troppo ottimisti rispetto lo sviluppo degli spazi abitativi e ci stiamo accorgendo che la maggior parte dei nostri parametri di progettazione sono fondati su presupposti sbagliati e che le risorse per costruire il nostro mondo sono limitate. È essenziale aggiornare la formazione di un architetto, conducendo al tavolo l’oltre-umano e assicurarci che ogni voce sia ascoltata e valutata. È uno sforzo enorme, ma il nostro sistema educativo deve reagire a questa esigenza, incorporando tutte le conoscenze in un lasso di tempo che consenta azioni rapide.

Per uscire dal disastro ambientale sono quindi da auspicare nuovi modelli di convivenza tra specie diverse?
Olafur Eliasson: Attualmente, le Nazioni Unite sono il modello che abbiamo per la cooperazione internazionale nelle questioni globali. Essendo state fondate nel 1945 in risposta alle crisi politiche, sociali, economiche e umanitarie dell’epoca, hanno una Carta orientata sui bisogni dell’essere umano, per fronteggiare il dopoguerra: controversie sui confini e i movimenti di massa dei profughi dopo il conflitto. Molti di questi problemi sono, purtroppo, ancora presenti, ma la crisi climatica richiede una risposta più radicale che guardi a interessi non solo umani, lasciando svanire le nostre frontiere individuali. Quali sono gli interessi di un albero? Le esigenze di una pulcinella di mare? Cosa vuole una cascata? E dove sono i loro diritti in un mondo definito dagli umani e dalla nostra tenace fede nell’eccezionalismo antropologico? Future Assembly è un tentativo di portare avanti questo processo di promozione dei diritti della natura.
Sebastian Behmann: Oggi indaghiamo i sistemi neurali nei funghi, sappiamo che gli alberi comunicano, che gli animali e le piante provano conforto e disagio, che hanno preferenze sui luoghi e su come essere trattati. Dobbiamo accedere a questa conoscenza per rivalutare come reimmaginare gli spazi. Perché, in sostanza, qual è il valore del design se, come designers, non abbracciamo e rispettiamo la vita nella sua interezza?

Lei, Olafur Eliasson, in un’intervista ha affermato che esiste un «potenziale liberatorio nel riflettere sui nostri sensi, sulla percezione»…
Conosciamo tutti la commozione di fronte a un’opera d’arte, un brano musicale o un buon libro. Si accede a qualcosa in noi che era già lì, ma di cui forse non eravamo consapevoli. Siamo scossi dal nostro torpore. La visione è la chiave, ma le qualità tattili sono ugualmente importanti, l’olfatto, i suoni che si mescolano prima di raggiungere le nostre orecchie… Tutti influenzano ciò che sperimentiamo, ciò che intendiamo come «nostra realtà». Nulla è fisso, siamo coproduttori della realtà. E questa consapevolezza può, idealmente, spingerci ad agire nel mondo.