Che strana la pace siriana. Mentre l’Onu dava il via libera alla risoluzione sul processo per uscire dalla quinquennale crisi, la Nato decideva di inviare alla Turchia navi, caccia e aerei di sorveglianza Awacs per rafforzarne il sistema di difesa. Una pace da mettere sotto assedio, fittizio ramoscello ulivo intrecciato ad una pistola carica.

A gennaio, dopotutto, manca poco. Manca poco all’apertura del negoziato a cui trascinare parti scettiche, il governo Assad e il fronte fumoso delle opposizioni. Il tempo va usato per definire rapporti di potere. Con Mosca che gestisce buona parte delle operazioni anti-Isis, il Patto Atlantico si schiera alla frontiera, riconoscendo così legittimità all’aggressività turca contro l’alleato-avversario russo.

La versione atlantica è opposta. Il segretario generale Stoltenberg precisa che il pacchetto di aiuti è una misura meramente difensiva e fonti interne aggiungono che è volto ad evitare incidenti simili all’abbattimento del jet russo. Insomma, serve a monitorare i turchi e raffreddare le tensioni con la Russia. Risponde a tono Putin: «Vediamo come sono efficienti i nostri piloti, la marina, l’esercito. Non sono il massimo delle nostre capacità. Abbiamo altri mezzi militari. Li useremo, se necessario», ha detto ieri il presidente russo riferendosi alla lotta all’Isis, a poche ore dall’adozione della risoluzione 2254.

Quella risoluzione, salutata come un risultato storico (cessate il fuoco entro maggio, lancio del negoziato a gennaio) resta però invischiata nel non-detto: del futuro del presidente Assad non si parla, come non si parla di quali opposizioni potranno partecipare al negoziato. Nodi da sciogliere che spingono i vari protagonisti a ribadire le proprie posizioni. Se il ministro degli Esteri francese Fabius e il collega britannico Hammond insistino sulla necessità di assicurare l’uscita di scena di Assad, il segretario di Stato Usa Kerry non risparmia staffilate a Mosca: «Dobbiamo lavorare sulla percentuale di raid russi che effettivamente colpiscono l’Isis: se l’80% centrano le opposizioni, è una sfida da affrontare».

Più soft è la posizione dell’Iran. Ieri Teheran ha abbassato le armi e dichiarato di adeguarsi alla posizione russa: Assad non è più una precondizione insuperabile. Secondo fonti interne alla Repubblica Islamica, l’ammorbidimento sarebbe frutto dell’incontro tra Putin e l’Ayatollah Khamenei, il mese scorso, ma anche del protagonismo russo che potrebbe limitare il tradizionale ruolo iraniano a Damasco.

Screzi fiorivano anche intorno alla lista giordana di 157 gruppi esclusi dal negoziato: furiosa Teheran per l’inserimento (poi ritirato) delle Guardie Rivoluzionarie, infastidita la Turchia per l’esclusione del Pkk. L’impasse va superata: si tratta di un elemento centrale, base per i futuri raid. Che troppo spesso colpiscono obiettivi sbagliati. Venerdì è toccato alle truppe irachene, centrate a Fallujah da bombe Usa: «La coalizione stava coprendo l’avanzata delle truppe di terra vicino Fallujah perché i nostri elicotteri non potevano alzarsi in volo per il cattivo tempo – ha detto il ministro della Difesa al-Obeidi – Il bilancio finale è di 9 soldati uccisi, tra loro un ufficiale».

Il Pentagono fa mea culpa a metà: ammette il raid, ammette l’uccisione di alleati, ma scarica la responsabilità su Baghdad che avrebbe fornito informazioni sbagliate. «[Il premier iracheno al-Abadi] e io abbiamo concordato sull’apertura di un’inchiesta, ma sono cose che succedono, un incidente che coinvolge entrambe le parti», lo scarno commento del segretario alla Difesa Carter. Intanto all’ospedale Yarmouk di Baghdad i familiari dei soldati affollavano disperati i corridoi: «Pensavamo fosse fuoco di Daesh – racconta un militare sopravvissuto al The Washington Post – Ho visto tanti cadaveri». Cadaveri che non aiutano la debole credibilità Usa: ieri erano in tanti, tra familiari e miliziani sciiti accorsi in ospedale, a puntare il dito contro il paese che considerano responsabile della tragedia irachena.