Sheng Keyi oggi vive a Pechino ed è una delle voci più acclamate della scena letteraria contemporanea. Oltre a Crescita selvaggia ha scritto, fra gli altri, Northern Girls, pubblicato nel 2012 da Penguin China e candidato al Man Asian Literary Prize, e Fuga di morte, uscito da Fazi nel 2019. In occasione dell’uscita del suo nuovo libro in Italia l’abbiamo contattata per porle alcune domande.

Perché ha deciso di riesplorare e riflettere sulla storia contemporanea cinese dal punto di vista delle donne?
Avvicinandomi ai quarant’anni, ho sentito che era giunto il momento di sedermi e scrivere la storia della mia famiglia, provando a esprimere il mio senso di impotenza mentre osservavo le loro alterne fortune. Quegli eventi hanno attraversato la mia infanzia e la mia educazione. Più di tutto si andava stabilizzando e veniva seppellito dalla storia, più mi sentivo ansiosa, disperata e arrabbiata. Ho la percezione di avere usato la mia scrittura come se fosse un’arma per proteggere la mia famiglia, o per vendicarla, per urlare, per compensare il panico che da ragazza ho dovuto affrontare per tutto questo molti anni fa. Quarant’anni di riforme e di apertura, lo sviluppo sociale ed economico della Cina sono stati frenetici e il caos si è diffuso: la dignità individuale, i diritti e persino la vita si sono volatilizzati. Non ho avuto bisogno di scegliere una prospettiva o una voce narrante particolare: ho semplicemente aperto la porta della mia memoria interiore per raccontare come una famiglia normale, o degli individui, siano stati schiacciati senza pietà dal tritacarne del sistema. Gran parte del romanzo si basa sull’esperienza della mia famiglia, dei parenti e incorpora anche eventi sociali reali, una punta dell’iceberg di quel periodo della storia cinese.

Di recente molti scrittori cinesi hanno riflettuto anche sui temi della storia cinese contemporanea, come Mo Yan, Yu Hua e altri. Rispetto a tali autori, quale crede che sia un aspetto unico di «Crescita selvaggia»?
Le opere di Mo Yan e Yu Hua, che per me sono due fratelli e mentori, rappresentano le vette più alte, le conquiste della letteratura cinese. Sono tutti scrittori con notevole saggezza e umorismo e nei loro libri ci sono molte cose da cui le giovani generazioni possono imparare. Dico spesso di essere l’apprendista di Yu Hua. Vent’anni fa, dopo aver letto la raccolta di racconti Errore in riva al fiume (pubblicato in Italia nella raccolta Torture, Einaudi, 1997 traduzione di Maria Rita Masci ndr) e il romanzo Vivere! (Einaudi, 2012, traduzione di Nicoletta Pesaro ndr), ho sentito un calore tale che mi ha spinta subito a scrivere romanzi. Non oso paragonare il mio libro ai capolavori dei due predecessori. Rispetto ai miei lavori precedenti, questo è comunque più sociale e invadente, perché ho provato a presentare un quadro più ampio, tentando di raccogliere il potere della luce per perforare nuvole scure.

Quale letteratura straniera ha ispirato la sua scrittura?
La nascita di un’opera è un po’ come far crescere una pianta: non bastano solo la luce, la pioggia; servono anche il gelo, la neve, i fulmini, perfino lombrichi e insetti che svolgono un ruolo sotterraneo nella crescita di una pianta. Analogamente ci sono aspetti sottili, accumulati nel tempo, che finiscono per ispirare la scrittura senza nemmeno rendersene conto. Quando si tratta di indicare autori stranieri preferiti mi vengono in mente, senza pensarci troppo, William Faulkner, García Márquez, Italo Calvino. All’inizio della mia carriera di scrittrice ero molto affascinata anche da Kafka.

I personaggi maschili sembrano mentire, irritabili, supponenti e di mentalità ristretta. Come valuta l’impatto del patriarcato sulla vita sociale e politica cinese?
I divieti e il fallimento del movimento #MeToo in Cina mi pare siano lì a illustrarne a sufficienza l’impatto.