Nell’anno 1926, al VI plenum dell’esecutivo del Comintern, l’organizzazione comunista internazionale, il delegato italiano Amedeo Bordiga chiese di discutere apertamente della situazione in Unione Sovietica e della politica economica, la Nep, mettendo in questione il rapporto tra rivoluzione russa e rivoluzione mondiale. La richiesta suscitò l’indignata reazione di Stalin: «Questa domanda non mi è stata mai rivolta. Non avrei mai creduto che un comunista potesse rivolgermela: Dio vi perdoni di averlo fatto».

L’indiscussa preminenza sovietica nasceva da un’evidente sproporzione dei rapporti di forza nel movimento comunista tra un partito-stato, quello russo, e i partiti comunisti delle nazioni occidentali, che vivevano una condizione generale di minorità. Proprio quell’anno tale squilibrio divenne, nel caso dei comunisti italiani, spropositato: con l’avvento al potere del fascismo, essi, quando non in carcere (come Gramsci), si ridussero a un gruppo di espatriati, intellettualmente rilevante ma esiguo, e dipendente strettamente da Mosca.

FINORA LA STORIA DEL PCI è stata analizzata e raccontata prevalentemente dal punto di vista nazionale. Anche se non si può dire che i rapporti con l’Urss e col mondo comunista internazionale siano stati ignorati, essi sono stati però considerati in via subordinata: si potrebbe dire che la prospettiva gramsciana e togliattiana di un partito nazionale abbia finito per imporsi sul piano storiografico. Ora però, in occasione del centenario dal congresso di Livorno del 1921, un libro propone un’accurata rilettura di una storia molto nota e molte volte narrata da un’angolatura differente, volta a considerare il PCI come parte del movimento comunista internazionale. Si tratta del volume di Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri: Visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento (Einaudi, pp. 358, euro 32)
L’acquisizione di partenza del libro è che la rivoluzione sovietica ha creato un nuovo soggetto, il comunista rivoluzionario, portatore di una prospettiva globale, e questo perché la rivoluzione, immaginata come incipiente, non veniva concepita come un fatto nazionale ma mondiale. Presto però a questa dimensione – che troverà il suo prosieguo nella «rivoluzione permanente» trotskista – si sovrapporrà la centralità sovietica, come mito ideologico ma anche come concreta preminenza degli interessi di potenza dell’Urss.

Il libro racconta così una serie di svolte imposte al Pci dall’esterno e spesso tradottesi in bruschi strappi: il revirement voluto da Lenin nel 1922 verso la tattica moderata del «fronte unico»; l’obbligata accettazione da parte di Togliatti (ma non di Gramsci) nel 1926 della linea di Stalin-Bucharin del socialismo in un paese solo; la sottomissione, nel 1928, alla linea staliniana del «socialfascismo», che accomunava il fascismo alla socialdemocrazia; l’adesione alla retromarcia di Stalin del 1934 che rinnegava la linea del «socialfascismo» puntando invece su un’unità del campo socialista; la liquidazione dell’esperienza antifascista col patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939; l’ennesima svolta dopo l’invasione nazista della Russia nel 1941 con la conseguente dissoluzione nel 1943 del Comintern e la nuova apertura a fronti ampi antifascisti.

MA POI, anche dopo l’instaurarsi nel 1947 della guerra fredda, e sia pure in un contesto di maggiore autonomia, in tutti i momenti decisivi della storia del Pci sono stati gli equilibri internazionali e il rapporto con Mosca il fattore decisivo: dai fatti di Ungheria nel 1956 alla destalinizzazione, dall’intervento armato sovietico a Praga nel 1968 alla repressione di Jaruzelski in Polonia nel 1981, fino alla perestrojka di Gorbacëv.
L’analisi delle scelte assunte via via dal Pci è condotta nel libro con una prospettiva distaccata, che prendendo atto della fine di contrapposizioni ideologiche oramai sterili, punta più a capire che a giudicare. Pons mostra come Togliatti non sia stato un mero esecutore delle politiche di Stalin, raffigurandolo come portatore di una testarda difesa – anche attraverso la dissimulazione – delle esigenze del «partito nuovo»: conciliando cioè l’internazionalismo comunista e un’indiscutibile lealtà a Mosca con la delineazione del Pci come partito nazionale di massa e con la ricerca di una democrazia progressiva.

E IN QUANTO A BERLINGUER vi è qui una visione più positiva di quella delineata nel precedente volume Berlinguer e la fine del comunismo (Einaudi, 2006) che lo presentava come un uomo visionario ma illuso, che pensava erroneamente che il comunismo fosse riformabile. L’eurocomunismo, ad esempio, è qui presentato con maggiore simpateticità e si sottolinea come Berlinguer abbia consegnato alla sua morte un’eredità che non era per nulla scontata al momento in cui aveva preso in mano il partito: un soggetto egemonico della sinistra italiana, rispettato dalla sinistra europea e accreditato di relazioni globali con la socialdemocrazia, l’area dei paesi non allineati, il movimento terzomondista e pacifista. La conclusione di Pons è che alla caduta del muro di Berlino i comunisti avevano in parte realizzato ciò che avevano lungamente perseguito immaginando il proprio paese in diversi contesti transnazionali e globali: far avanzare la democrazia con l’obiettivo di porre fine alla guerra fredda in Europa e in Italia. Il prezzo da pagare fu la fine della loro storia e della loro identità.