Autore di un esordio di notevole forza espressiva con Icarus (minimum fax), un corpo a corpo con le storie e le vicissitudini di un personaggio in chiaroscuro della Storia italiana recente come Raul Gardini, anche con Nero d’inferno (Mondadori, pp. 300, euro 19), Matteo Cavezzali si rivela un narratore attratto dalla moltitudine e dalla complessità storica e romanzesca.
Conscio che «quello che si racconta nei libri può accadere davvero, ma quello che è accaduto veramente non può essere scritto in nessun libro», come avverte nella breve nota finale, in questo ibrido mescola porzioni diverse di senso: reperti di memoria storiografica, fonti orali, cronache giornalistiche, racconto in presa diretta, invenzione dalla realtà e pura fiction – che è forse l’elemento più sofisticato di questa macchina narrativa che l’autore costruisce per ottenere un effetto altro con gli artifici della finzione, dall’invenzione dalla realtà.

COME GARDINI, personaggio dell’epica industriale della città dove l’autore vive ed è cresciuto culturalmente, Ravenna, anche Mario Buda, l’anarchico bombarolo protagonista del suo secondo libro, è di sangue romagnolo. Emigrato da Savignano sul Rubicone negli Stati Uniti nel 1907 a bordo della Regina d’Italia, un bastimento partito da Genova alla volta di New York, poi entra come operaio in una fabbrica di cappelli a Roxbury, un quartiere di Boston, e vive le lotte politiche e i sogni rivoluzionari di una nuova classe di sfruttati, dentro le ferite di un’epoca e dell’emigrazione italiana dei primi del ’900. Forse la parte più riuscita e forte di questo romanzo sociale, è proprio la Storia politica della comunità italiana negli Stati Uniti, nel suo farsi classe internazionalista e rivoluzionaria, il racconto dei fatti del 2 giugno 1919, le bombe postali Gimbel Brothers – Novelty Samples, e i suoi tanti protagonisti immersi nel vissuto quotidiano, siano essi personaggi di rilievo e noti come Sacco e Vanzetti, o di secondo piano, ma non meno necessari alla causa e all’andamento narrativo del libro, così come i dago raccontati da John Fante. Per iscrivere Mario Buda dentro questa complessa narrazione corale, Cavezzali sceglie come modalità narrativa la molteplicità dei punti di vista, che tiene insieme pezzi eccentrici di memoria dispersa, come nell’indimenticabile Il figlio di Bakunin di Sergio Atzeni.

LE TANTE VOCI, i tanti sguardi dei raccontatori, anche tra loro contraddittori, e per questo più veri, colti anche in diversi momenti temporali, ognuno dei quali svela la propria verità, fanno di questo libro un libro che cresce e si potenzia per accumulo. Sono lo stesso Mario, Mike Buda, che affabula sui libri di Bakunin e legge Cronaca sovversiva, il giornale clandestino che gli anarchici stampavano nel Vermont, il quale fantastica la bomba come strumento di distruzione e di liberazione degli oppressi: «una bomba non è solo tritolo, è un boato che illumina la notte trasformandola per un attimo in giorno», riferisce nel suo memoriale. Nel descrivere l’inferno della fabbrica e la condizione di assoluto sfruttamento e di odio razziale nei confronti dei lavoratori della comunità italiana negli States, l’autore mette in bocca a Luigi Gallegani, ideologo anarchico piemontese, due versi di quello che è stato il poeta italiano dell’emigrazione operaia, Luigi Di Ruscio: «di questo italiano straniero non sappiamo niente / si sa solo che puzza ed esiste».

MA DENTRO questa macchina narrativa fatta di tanti verbali, come fossero deposizioni spontanee rese al lettore, in questa moltitudine di punti d’osservazione, convergono fluviali quelli della fidanzata Matilde, la madre di Buda, l’affittuaria Emily van Morris, l’anarchico Elia, il capitano William J. Flinn del Bureau of Investigation, la spia Eugenio Ravarini, William Sinclair giornalista del Boston Herald, Emilio Lussu, il Ku Klux Klan e persino Cesare Lombroso, tra i tanti.
Questo crescendo di informazioni, testimonianze, dichiarazioni, raggiunge l’acme nel racconto dell’esplosione del 16 settembre del 1920, sei mesi dopo l’arresto di Sacco e Vanzetti, quando un carretto trainato da un cavallo nero e stipato di dinamite deflagra distruttivo «tra Wall Street e Broad street, tra il Federal Assay Office, che dava le quotazioni dei metalli, e la J.P.Morgan & C., la più importante banca del paese», provocando 38 morti e 143 feriti, quello che il procuratore Palmer definì «un atto di guerra contro l’America».
Buda è accusato della strage, ma quando cercano di arrestarlo è già scappato in Messico, e rientrato in Italia viene confinato prima a Lipari e dopo a Ponza. Si proclamò sempre innocente fino al 1963, anno della sua morte, e visse a Savignano sul Rubicone, dove fece il ciabattino, un’altra sua passione, forse una delle tante ossessioni, oltre alle bombe, all’anarchia e l’odio di classe. Come la tintura «nero d’inferno, quel nero scuro come catrame» che gli piaceva tanto.