«Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore». Scheggia pasoliniana che ben racchiude la percezione e l’intento con cui il maestro Roberto De Simone ci conduce nel labirintico tragitto del saggio «La Canzone Napolitana» (Einaudi, 2017).

La chiave (musicale) di lettura sta nell’incipit: «Lo scrittore di questo libro non intende assumere la canzone napoletana come barca per una passeggiata tra Posillipo e Santa Lucia, ma come vela di una nave spinta dai venti della storia e da quelli del mito, (…) fino allo scontro con l’iceberg del consumismo». È una promenade metastorica che analizza le molteplici forme di canto sviluppatesi dal Cinquecento fino al secondo Novecento; che assume la struttura del saggio, del romanzo, del cunto, del memoir; che si erige sia su aspetti musicologici sia sull’oralità/vocalità registrati e riorganizzati da De Simone dopo anni di studio e di ricerca sul campo.

Oralità popolare scomparsa insieme alle «lucciole» che segnano il tragico declino di feste e riti di tradizione rurale con l’avvento del linguaggio mediatico che dispoticamente ha annichilito ogni forma di cultura popolare.

Una «mutazione antropologia» iniziata alla fine degli anni Sessanta, quando l’egemonia del medium ha manipolato e livellato le coscienze alterandone l’immaginario collettivo e marcando barbaramente il confine tra cultura dominante e cultura subalterna.

De Simone rinuncia al folklore come elemento «pittoresco» e c’immerge nelle sonorità rimosse di una Napoli epica. Un viaggio surreale con il maestro Vincenzo Vitale, Salvatore Di Giacomo, Enrico De Leva, Eduardo Caliendo, Nina De Charny, Gian Battista Basile; i cantori di strada come Eugenio Pragliola; i castrati come Caffarelli e Porporino; i tammorrari come Salvatore Buccino; i femminelli come ’a pullera e Pulicane recchia ’e fascio; i posteggiatori come Pascale ’o piattaro e Giggino ’a questua. E ancora: Pezzottiello, i mercati rionali, le villanelle, le antiche partiture, Sergio Bruni l’autentica voce di Napoli, Menecone, Mario Merola reincarnazione di un «bazzariota» del Settecento e Carlo Gesualdo.

Un immaginifico paesaggio underground ci attraversa come l’onirica conversazione tra Claudio Monteverdi e Torquato Tasso nei dedali del centro storico partenopeo costellato di canti a distesa, di imprecazioni «Sti figlie de’ quatto nàteche», del racconto del posteggiatore Peppino De Francesco detto «’o zingariello» che con la sua vocalità affascinò Richard Wagner, durante il soggiorno napoletano, interpretando «Cicerenella», tanto che il compositore lo portò con sé per un anno a Bayreuth.

Qui, in presenza di Franz Liszt, l’invitava a intonare la strofa «Cicerenella teneva ’no culo che pareva ’no cofenaturo», definendola «La tarantella dei culi»; «’A jamma appunisce nu maronn’ ’e proso e manco ’e tennose so’ fesse», ovvero la lectio magistralis dedicata alla «parlèsia», il linguaggio criptico dei musicisti napoletani. Opera destrutturata in cui le figure reali e immaginarie scorrono rapide come un rimando al surrealismo filmico di Luis Buñuel. «Il ritornello di una canzone perduta», così De Simone definisce «La Canzone Napolitana», in cui demolisce con acume critico i luoghi comuni, dissacrando le venerazioni laurine e piccolo-borghesi, in primis l’«assolutismo egemonico» di Eduardo devastante per la tradizione teatral-musicale napoletana.

Un lavoro composito con una struttura stratificata e polisemica che è un inno all’oralità e alla vocalità su cui s’innalza il canto dello Stabat Mater per Napoli. «La Canzone Napolitana» è un contrappunto letterario magnificamente ritratto dalle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco e dove l’autore ringrazia per la collaborazione: Filomena Piccirillo De Simone, Anita Pesce, Antonello Paliotti, Mauro Amato. Una riflessione appassionata sulla città e la sua identità culturale persa. «Napule è comm’ ’o zuccaro,/Pare no franfellicco,/Ognuno vene, allicca,/Arronza e se ne va».

L’impellenza politica del primato della cultura ha portato spesso il Maestro a denunciare lobby partitiche inondanti i teatri italiani. È palese il suo vivere defilato, lontano dai salotti benpensanti pseudo culturali che hanno incancrenito Napoli moralmente e intellettualmente.

Ma, si sa, «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia», ipse dixit Pier Paolo Pasolini. Alla prossima eruzione/erudizione vesuviana del maître à penser!