La musica totale della swing era
Memoria «La leggenda del trombettista bianco» di Dorothy Baker per Fazi editore. Cresciuto nei sobborghi di Los Angeles apprese l’arte dell’improvvisazione e della jam session fino a diventare un grande del jazz
Memoria «La leggenda del trombettista bianco» di Dorothy Baker per Fazi editore. Cresciuto nei sobborghi di Los Angeles apprese l’arte dell’improvvisazione e della jam session fino a diventare un grande del jazz
1938: a trentun anni la narratrice americana Dorothy Baker fa il suo esordio con La leggenda del trombettista bianco, tra i primi romanzi sul jazz riproposto nel 1950 in un film diretto da Michael Curtiz (con Kirk Douglas e Lauren Bacall). Alle spalle della «leggenda» c’è soprattutto la musica e secondariamente la breve vita del trombettista Leon Bix Beiderbecke (1903-1931). L’editore Fazi pubblica il romanzo della Baker (traduzione di Stefano Tummolini, pp. 234, euro 16) che in Italia non è mai stato edito.
Impresa difficile quella di «romanzare» la musica afroamericana e forse insuperabili restano le pagine dedicate da Julio Cortazar a Charlie Parker nel suo lungo racconto Il persecutore. Lì, tuttavia, si parlava del bebop degli anni ’40 e del rapporto tra critico e musicista, tra teoria e creatività in atto mentre la Baker narra, a suo modo, la vicenda sonoro-esistenziale di un trombettista bianco nel pieno dei ruggenti anni ’20, con squarci che vanno dai sobborghi di Los Angeles alla Harlem cosmopolita del secondo decennio del secolo, dalla California vacanziera agli studi di registrazione della Gennett. In controluce di intravedono elementi biografici ma l’autrice semplifica molto la complessa vita di «Bix» a cui, proprio nel novembre 1938 la rivista americana «Metronome» dedicò un numero speciale, fitto di interviste e ricordi. In evidenza per il protagonista Rick Martin è il percorso autodidattico che lo porta a diventare un buon pianista ma soprattutto un ottimo trombettista attraverso un apprendimento-imitazione che per molto tempo sarà la regola nel jazz. Anche se, come si ammonisce fin dall’inizio «tanto per cominciare, non avrebbe dovuto mettersi coi negri» è proprio dagli afroamericani che il giovanissimo Rick impara il senso del ritmo e, poi, tutti i rudimenti della musica fino alla capacità di improvvisare. Saranno il batterista-tuttofare Smoke Jordan e i jazzisti del gruppo del pianista Jeff Williams a fare da «scuola» per il giovanissimo Rick, dal retrobottega di un bowling ai locali fumosi di un «Cotton Club» losangelino. Anche se ispirato «solo» alla musica di Bix, il confronto con la biografia del celebre trombettista è inevitabile e balza all’occhio la diversa origine sociale, che per Rick Martin è sottoproletaria e priva di figure genitoriali mentre per Beiderbecke – di ricca famiglia borghese, di origine tedesca – il contrasto con il padre sarà al centro di un’esistenza ribelle anche nei confronti della scuola e qui le due figure coincidono.
L’intensa parabola esistenziale di Rick lo vede dai sobborghi di L.A. alle stazioni balneari alla moda della California (Balboa) dove spopola in un’orchestra che fa danzare i liceali, i Collegiali di Jack Stuart. Presto sarà «ceduto» proprio da Stuart a Lee Valentine e spiccherà il volo verso New York, non senza prima aver rotto i rigidi schemi delle dance-band dell’epoca per ampliare le sezioni improvvisate, spesso con il sostegno e il coinvolgimento di alcuni tra i più dotati musicisti dei Collegiali.
Qui sta la differenza con gli altri: per Rick Martin la musica è un valore assoluto e non si limita ad una corretta o appassionata esecuzione. La sua è un’elaborazione continua che coinvolge tutto il suo essere, senza per questo rinnegare i meccanismi dello spettacolo e della nascente industria discografica. Però c’è – nel rapporto tra arte e intrattenimento, creatività e industria che è caratteristico del jazz – il valore aggiunto dello «stile Martin»: «se ne stava in piedi, con un piede poggiato sul piolo di una sedia a soffiare un alito di vita in quella tromba tesa e sottile come una frusta».
L’ultima sezione, quella newyorkese, è la più debole da un punto di vista narrativo, sia per la lunga digressione «psicoanalitica» sul fallito matrimonio sia per l’accentuarsi di una dipendenza dall’alcool che è troppo rapida e porta in tempi «innaturali» alla morte del giovane Rick Martin. Non va, tuttavia, dimenticato che il libro è del 1938, che si era in piena swing era e che molto sarebbe mutato nel jazz e negli Usa. La «leggenda» resta legata alle origini e ai miti che sa ben tratteggiare nonostante qualche semplificazione.
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