Bronzeville è la parola più morbida per definire il quartiere periferico, il ghetto nero nel South Side di Chicago, la metropoli industriale del nord degli Stati Uniti, la città di Al Capone e Muddy Waters, dell’Art Institute e dell’Art Ensemble, meta agognata di migliaia di afroamericani in fuga dal sud agricolo e razzista al periodo della Grande Migrazione, durante la prima guerra mondiale, per andare a lavorare nei vicini mattatoi e acciaierie, la loro Land of Hope personale e durissima. Bronzeville Echoes: Faces and Places of Chicago’s African American Music è il titolo di una mostra al Chicago Cultural Center, uno splendido edificio vicino al Millenium Park, la prima grande biblioteca cittadina nel 1897 oggi trasformata in un luogo di concerti di musica classica e contemporanea, letture e proiezioni cinematografiche.

Poco lontana dal nuovo simbolo cittadino, il Cloud Gate, la porta sulle nuvole, la scultura metallica di Anish Kapoor, fatta di centinaia di lastre d’acciaio assieme (senza nessuna saldatura visibile), con una lucidissima superficie riflettente, ottima per le foto a specchio con lo skyline distorto dei grattacieli e le nuvole galoppanti sullo sfondo. Per qualcuno una goccia di mercurio liquido, per la maggioranza della popolazione «The Bean», il fagiolo, per la sua apparenza, un giocattolone-meteorite, inaugurato nel 2006 dal sindaco Daley, la più nota delle opere d’arte disseminate (a poca distanza Picasso, Mirò, Calder e Dubuffet) per il Loop, il centro cittadino solcato dalle rotaie sopraelevate della metro che s’incuneano tra il fiume e i grattacieli, provvedendo all’incanto della windy city, la città ventosa dal clima terribile.

INEVITABILE la gara dichiarata di questi giganti di vetro, acciaio e cemento per la maggiore altezza (ora il Willis, ex Sears Tower, coi suoi 110 piani per 435 metri d’altezza, la silhouette d’alieno con le due antennine sul capo, dal 1973 al 1998 è stato il più alto del mondo che sarà presto superato da altri colossi in costruzione lungo le sponde del Chicago River) o per la forma più creativa (la bottiglia di champagne, la poltrona, la matita rovesciata, la torta millefoglie, tradizionale col grande orologio che nasconde il serbatoio d’acqua), una vivace lezione d’architettura contemporanea, in perenne trasformazione come tutta la città, un monumento alla divinità del business, simboleggiato dalla statua dorata di Mercurio, in alto su uno skyscraper dalle vetrate verdeblu lungofiume.

Bronzeville Echoes è un’esibizione concentrata sugli anni 20-40, quel grande patrimonio di blues, ragtime, jazz, gospel che dette forma a una scena sonora vivacissima coi suoi locali notturni, grandi orchestre, music-hall, concerti di richiamo. Il periodo d’oro del Pekin Theatre e del Sunset Cafè, con un numeroso pubblico competente a frequentare teatri di varietà e spettacoli di ballo e ritrovi che avevano in cartellone il pianista Albert Ammons o Earl Hines o vendevano i race records, dischi nati per il pubblico nero, Crazy Blues di Mamie Smith fu il primo a superare il milione di copie vendute.

Ci si destreggia tra fotografie, spartiti, rari padelloni di acetato nero a 33 e 78 giri, i tanti libretti antologici del reverendo Thomas Andrew Dorsey (1899-1993), l’inventore di coinvolgenti gospel cantati nelle chiese battiste cittadine, conosciuto col nomignolo di Georgia Tom, inizialmente negli anni venti compositore e arrangiatore per molte cantanti blues. Nei decenni successivi i suoi brani, Take my Hand, Precious Lord (cantata da Mahalia Jackson, brano preferito di MLKing) o If you See my Saviour o Peace in the Valley (interpretata da Albertina Walker, Aretha Franklin, Johnny Cash e altri) divennero popolari nelle chiese protestanti, una grande forza per la religione del tempo più attenta ai turbamenti dei fedeli e meno alle sacre scritture (Dorsey, conosciuto anche per il suo canto e cori blues, fu autore di oltre 400 composizioni gospel ed ebbe un Grammy Award Trustees nel 1992).

Oggi, persino passeggiando nei parchi, tra fontane e animali, si viene accostati dalla solita coppia con le riviste religiose nell’espositore verticale, testimoni di Geova o avventisti del settimo giorno, chiesa mormone o evangelica pentacostale, tutte ferocemente antiabortiste, propagandiste della destra fondamentalista e reazionaria.

QUELLA BRONZEVILLE rumorosa e vibrante non esiste più, oggi è un quartiere segregato della zona sud, tra casermoni popolari in rovina, piccoli squallidi negozi con le inferriate e strade dissestate. A Street in Bronzeville è il titolo della prima raccolta di poesie di Gwendolyn Brooks (1917-2000), centrata sulle vite disperate dei poveri disoccupati, delle ragazze-madri, degli anziani rimasti soli e malati, con versi molto brevi, ritmici e colloquiali, liriche fortemente influenzate dal blues, come questa We Real Cool, nata in un pomeriggio osservando un gruppo di ragazzi che si sfidavano a sparare, quasi una marcata attenzione sull’uso di We, noi, ripreso poi da Muhammad Alì fino a Barack Obama.

«We real cool. We/ Left school. We/ Lurk Late. We/ Strike straight. We/ Sing sin. We/ Thin gin. We/ Jazz June. We/ Die soon» (cercatela su Youtube, recitata proprio da lei, gran performance). Nel 1949 pubblicò la seconda antologia, Annie Allen, prima afroamericana a vincere il premio Pulitzer ed eletta poeta laureata dell’Illinois nel 1968, insegnante di scrittura creativa ed insignita di numerose lauree ad honorem per i suoi lavori, compreso In the Mecca, una madre alla ricerca del figlio in un quartiere degradato. La sua consapevolezza e gentilezza ne hanno fatto un alfiere dei diritti civili, un esempio per poeti e rapper come Linton Kwesi Johnson e Kanye West, influenzando tutta la schiera dell’hip hop statunitense. Pochi mesi fa è stata scoperta una sua statua, col titolo di «L’oracolo di Bronzeville».

Altra notevole protagonista della scena chicagoana d’allora, ritratta in numerose formazioni e da sola, Lillian Hardin (1898-1971) fu talentuosa pianista, compositrice e bandleader, una figura leggendaria (ascoltate sui siti web, le sue performance d’antan -live o radiofoniche- sono una sequenza di fuochi pirotecnici), una pioniera del jazz dell’origini, a livello di Jelly Roll Morton, poco nota in Italia e invece donna indipendente e di successo, modello per le giovani generazioni nere.

ARRIVATA a Chicago a 19 anni, dopo diverse esperienze di studio della tastiera bianconera (anche alla Fisk University), trovò subito impiego come musicista dimostrativa al Jones Music Store e in poche stagioni dagli show nei ristoranti e cabaret passò a un posto fisso nella King Oliver’s Creole Jazz Band nel più noto night cittadino, il Dreamland. In quella band Hot Miss Lil, il suo soprannome, incontrò il suo futuro marito, Louis Armstrong, dando vita a un affettuoso sodalizio professionale e umano. Lil gli costruì una nuova carriera da divo, aiutandolo in tanti modi, insegnandogli a leggere la musica e a conquistarsi il suo spazio, allontanandolo dai gangster della mafia coi quali si era messo in combutta, facendolo evolvere da dotato e timido secondo cornettista un po’ campagnolo in un assoluto fuoriclasse della tromba.

Tra il 1925 e il 1928 Louis Armstrong incise alcune importanti registrazioni con le sue due formazioni, gli Hot Five e gli Hot Seven, raggiungendo lo status di superstar, col suo nome a lettere cubitali nei programmi di sala. Nel 1936 Lil Hardin incise uno dei suoi brani più famosi, Just for a Thrill (portato poi al successo da Ray Charles nel 1959) ispirato dalle frequenti scappatelle di Satchmo (con conseguente divorzio però conservando sempre una tenera relazione) e altri pezzi importanti, divenuti nel tempo Dixieland standard, come Bluer than Blue, Born to Swing e Struttin’ with Some Sarbecue.

Poi costruì un sestetto, una band tutta femminile e continuò a lavorare come direttore artistico alla Decca Records. Il destino, però, le aveva riservato l’ultimo incontro con Louis Armstrong, ennesimo segno di affiatamento e comunione spirituale in grado di superare ogni ostacolo. Se ne volò via il 27 agosto 1971, chiamata direttamente dal suo grande amore mentre suonava i loro brani in una trasmissione televisiva di tributo ad Armstrong, morto appena un mese prima. Non poteva resistere di più.