Walter Dal Zotto, un uomo di 42 anni abitante a Valli del Pasubio (Vicenza), ha perso il lavoro. Ha smesso di pagare le rate del mutuo della sua casa che è stata messa all’asta. Dieci giorni fa un ufficiale giudiziario e un aspirante acquirente sono entrati nella casa e lo hanno trovato seduto sul divano con le gambe accavallate semi-mummificato. Era morto da dieci mesi.

La mummificazione ha afferrato non l’uomo morto, ma la sua solitudine che ha oltrepassato la morte. Come la muffa si appropria del pane non mangiato, dimenticato, la mummia si è impadronita dell’essere umano non amato. Un uomo desolatamente solo muore e solo allora la sua domanda di desiderio, rinchiusa in se stessa, non comunicante, ma pur sempre viva nel suo isolamento, cede e viene posseduta dalla muffa delle «relazioni sociali».

Quando si muore, si muore soli. Perdendo non se stessi, ma le persone amate a cui morendo ci si aggrappa, anche quando il conflitto con loro le ha rese irraggiungibili e l’amore è sopravvissuto solo grazie all’odio o come potenzialità sospesa o congelata.

Gli ultimi pensieri, le ultime allucinazioni dell’eros sono per loro. Si affida ai vivi la propria solitudine, che riassume nella sua configurazione finale tutti i momenti in cui ci si è sentiti soli. I vivi devono prendere cura di questa solitudine, ciò fa parte del loro lutto. Devono far rivivere i morti dentro di sé, non farli sentire soli quando li ritrovano in altre persone nel mondo esterno. Se i vivi sono davvero vivi.

Recentemente su Nature Human Behaviour è stato pubblicato uno studio sul rapporto tra l’uso delle parole e la personalità, coordinato da Kevin Lanning dell’Università di Florida. Secondo lo studio, le parole che usiamo quotidianamente rivelano il livello di sviluppo dell’Io, in termini sociali, morali e cognitivi, nonché il tipo di personalità (altruista, consapevole di sé, aggressiva, egoista ecc.) e il suo rapporto con altri modelli di personalità e differenze individuali.

Questi tipi di ricerca riscuotono grande successo finanziario, politico e mediatico. Di fatto alloggiano nella superficie dell’esistenza, cercano gli stereotipi dell’omologazione socioculturale, contribuendo alla loro produzione.Tali stereotipi chiamati «tipi di personalità», e oggetto costante di manipolazione, descrivono ciò che dell’essere umano è prevedibile, predeterminabile e pronto al suo uso strumentale. Le parole che l’essere umano usa in modo anonimo nel suo caratterizzarsi in una tipologia di comportamento, nulla veramente dicono di esso come soggetto desiderante. La caratterizzazione, che non è originalità, esprime l’adattamento impersonale dell’individuo alle sue condizioni sociali. Crea una pattina di insensibilità che non lascia respirare la soggettività avvolta in essa.

Secondo il Morbidity and Mortality Weekly Report, principale collettore di dati epidemiologici provenienti dalla sanità pubblica statunitense, più di 200.000 persone sono morte dal 1999 al 2016 a causa di overdose da oppiacei usati come antidolorifici. Con un tasso di mortalità quintuplicato in questo lasso di tempo. Negli Stati uniti c’è una grave epidemia di abuso di oppiacei, dovuto a un rifiuto psichico del dolore.

Sempre negli Stati uniti il lutto è stato classificato come malattia perché potesse essere autorizzata la somministrazione di antidepressivi anche nel suo caso. Si vive per non soffrire, a rischio di comprimere la vita dentro di sé e morire emotivamente, mentre si è fisicamente vivi. La mummificazione visibile dei morti, testimonianza dell’incuria dei vivi, rivela in modo indiretto la mummificazione invisibile di questi ultimi.