La strada tra Cinisello Balsamo e Pisa è – a quanto pare- lastricata di successi. Nel 1989, quando Ikea inaugurò nella città alle porte di Milano il suo primo store, vendere mobili agli italiani era considerata una scommessa. Quello aperto a marzo in Toscana, però, è il negozio numero ventuno della serie, e nel 2013 la multinazionale ha ricavato nel nostro Paese 1,59 miliardi di euro. I successi, così, vengono celebrati con una lunga festa di compleanno, con eventi (e sconti) in programma fino al 2 giugno. Il «regalo», però, Ikea lo ha fatto a se stessa, organizzando una grande festa al Teatro Litta di Milano, durante la quale ha raccolto il sostegno – tra gli altri- di Oscar Farinetti, patron di Eataly, e dell’economista Giulio Sapelli. Il primo ha detto che «Ikea rappresenta il prototipo del ‘mercante’, capace di coniugare obiettivi poetici e metodo matematico»; il secondo ha invece assicurato che si tratta di una «multinazionale speciale», perché «fa dell’economia una democrazia estetica, garantisce l’accesso alla cittadinanza economica e obbliga i giovani alla manualità».

La festa, che si è tenuta lo scorso 21 maggio, ha lasciato al margine le vicende di Piacenza: le proteste dei facchini che lavorano al magazzino centrale di Ikea, ben visibile dall’autostrada A1, avrebbero potuto turbare il clima.

Il fulcro della manifestazione – cui hanno partecipato anche un esponente del governo Renzi, il Sottosegretario alle riforme costituzionali e ai rapporti con il Parlamento Ivan Scalfarotto – è stato invece la presentazione di un’analisi condotta da Ernst&Young e dedicata al «valore esteso» di Ikea in Italia. Si tratta, come ha spiegato Elena Alemanno, Deputy Country Manager di Ikea in Italia, di «una ricerca di tipo quantitativo, che ha focalizzato tre dimensioni: l’occupazione, il valore aggiunto e la contribuzione che l’impresa garantisce allo Stato, sotto forma di tasse e imposte».

È come una fotografia, e la si può guardare quindi in positivo ma anche in negativo: leggendola con attenzione, è capace di aprire le porte di Ikea – anche le più nascoste – ad addetti e non addetti ai lavori.

Intanto, ci dice che il numero dei dipendenti della multinazionale è 6.431: 6.058 lavorano nei negozi (e cioè per Ikea Retail, la società che si occupa della gestione dei 21 store); solo 260, invece, sono impiegati da Ikea Distribution, la società incaricata di gestire i magazzini e della distribuzione delle merci, che per il suo funzionamento si avvale però di oltre un migliaio di lavoratori indiretti, cioè i dipendenti delle imprese e cooperative di trasporto e di facchinaggio, quelli che protestano; altri 86 sono i dipendenti di Ikea Trading, e 27, infine, sono quelli di Ikea Property, l’immobiliare del gruppo. Contando anche l’indotto, però, secondo l’analisi di Hrnst&Young, Ikea avrebbe una ricaduta occupazione pari a circa 21mila posti di lavoro, tenendo in considerazione lungo la catena produttiva sia i fornitori diretti che chi produce beni e servizi necessari ai fornitori di Ikea (si chiama «second round effect»).

I posti di lavoro generati presso le aziende che realizzano prodotti a marchio Ikea in Italia, beni venduti in tutto il mondo, sarebbero oltre 11mila: il nostro Paese è il terzo fornitore globale per la multinazionale, dopo Cina e Polonia, con l’8% del totale.

L’azienda acquista nel nostro Paese beni per oltre 1,2 miliardi di euro, con una forte concentrazione geografica – circa il 60% del fatturato è concentrato in Friuli-Venezia Giulia e in Veneto- e «settoriale» -il 64% sono mobili, il 17% elettrodomestici.

In totale, Ikea nell’anno fiscale 2013 ha speso in Italia 1,526 miliardi di euro: oltre all’acquisto di mobili, elettrodomestici e altri prodotti, 280 milioni di euro riguardano l’acquisto di beni e servizi. Una «ricchezza» per l’Italia, a meno di non considerare che tra questi «costi» sono calcolati in positivo anche quelli sostenuti per la costruzione di nuovi negozi – nell’ultimo anno quello di Pisa, realizzato nel corso del 2013 e inaugurato a marzo 2014 – ma non, in negativo, le ricadute ambientali e sociali che questi interventi comportano.

L’ultimo dato che emerge nell’analisi di Ernst&Young è quello relativo a tasse e imposte pagate in Italia e «collegate» all’attività di Ikea. Anche in questo caso, si somma un «contributo fiscale» diretto a uno «indotto», e cioè legato alle attività dei fornitori (che sono anche coloro che pagano quelle imposte). Il dato complessivo è pari a 286 milioni di euro, ma il «contributo» diretto – cioè tasse e imposte pagate da Ikea – è pari al 38 per cento del totale, cioè 119 milioni di euro.

Andando a cercare un ultimo sottoinsieme, si capisce che solo 24 milioni di euro (su un fatturato complessivo di 1,59 miliardi di euro) sono le imposte effettivamente pagate sul reddito d’impresa dall’insieme di società attraverso cui la multinazionale gestisce le proprie attività italiane, le varie Ikea Retail, Distribution, trading e Property.

Alla ricostruzione della «catena societaria» di Ikea, il mensile Altreconomia ha dedicato negli anni scorsi un’inchiesta, disegnando l’organigramma del gruppo, una piramide il cui «vertice» è stato spostato negli anni Settanta in Olanda, Paese Ue a fiscalità agevolata, e non più in Svezia.

Negli anni scorsi anche l’Agenzia delle entrate aveva indirizzato alla filiale italiana di Ikea delle contestazioni, per «transazioni intercorse con soggetti residenti in Paesi a fiscalità privilegiata per i quali si contesta il diritto di deduzione di parte dei costi sostenuti» e «transazioni intercorse con parti correlate», come segnalava in un articolo Il Sole 24 Ore relativo al bilancio 2011 della multinazionale.

Quando chiediamo lumi in merito, Lars Petersen – ad della società dal 2010 – chiama a rispondere alle nostre domande Luigi Melloni, consulente della società: ogni contenzioso e richiesta di verifica, avanzata tanto dalla Guardia di finanza quando dall’Agenzia delle entrate, comprese quelle relative al bilancio 2011, hanno avuto un esito positivo per la società spiega Melloni. Ikea lamenta, semmai, un’eccessiva e invasiva presenza degli organi di controllo. Un effetto «diretto», diciamo noi, delle scelte fatte – anche in Italia – per garantire quella che viene definita «ottimizzazione fiscale».

*giornalista di «Altreconomia», www.altreconomia.it