L’uso senza limiti del linguaggio iperbolico in un dibattito politico quasi sempre privo di spessore analitico ci sta privando della possibilità di orientarci. Se la politica finanziaria connessa all’attuale gestione dell’euro diventa «Auschwitz». Se ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza (spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti d’interessi) diventa «colpo di stato». Se la reale tendenza al progressivo concentrarsi del potere in ristrette oligarchie diventa «ritorno al fascismo», ebbene la specificità e il peso di ogni fenomeno scompaiono ed orientarsi in «una notte in cui tutte la vacche sono nere» è impresa assai difficile.
In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile, Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.

Luigi Pintor diceva che dopo mezzogiorno con il quotidiano si potevano incartare le patate. Visto con quanta facilità si dimentica, mi si scuserà se faccio riferimento all’articolo citato.
I dati di fatto non sono controvertibili. Dall’insieme delle sentenze relative a Berlusconi, Previti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella definitiva della Cassazione che, come ricordiamo, non è giudice di merito) emerge un quadro criminale impressionante. Il centro del quadro è rappresentato da un enorme e ramificato sistema corruttivo espanso in tutte le possibili varianti. Il sistema corruttivo è necessità funzionale come uscita di sicurezza per una molteplicità di comportamenti delinquenziali. La politica è una delle varianti più importanti tanto come uscita di sicurezza che come luogo privilegiato del circuito potere-denaro.
La triade suddetta è stata il fulcro, il soggetto agente della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti. Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.

Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana i gangli fondamentali della vita politica si trovano ad essere intrinsecamente legati a una operazione criminale.
Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di «normalità mostruosa», come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo «dolorante dietro l’eterno sorriso (…) un uomo che merita rispetto», un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una «guerra giudiziaria» finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile). E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo «status particolare» che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla «necessità» di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via «quasi obbligata» (Massimo Giannini, 16 aprile).

L’espressione «non ci sono alternative», non casualmente una delle preferite da Margaret Thatcher per giustificare la durissima repressione sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze. Nel nostro caso non si tratta di «necessità» bensì di una conclamata «sintonia» per una prospettiva di bipartitismo forzoso su cui Renzi e Berlusconi giocano il futuro delle loro fortune politiche.
Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.

Il dilemma, in fondo, è piuttosto semplice: le sentenze dicono il vero o sono il frutto della falsificazione di una magistratura politicizzata? La seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai condannati, ma da aree politiche e d’opinione relativamente ampie. Gli autorevoli devono dirci se la condividono o meno. Penso di sì, perché è l’unica ipotesi in perfetta coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno che Berlusconi ha i voti e il loro è semplicemente realismo politico. Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della condivisione di quello stato di necrosi che caratterizza il tessuto connettivo civile in Italia.

Ovviamente è del tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il recinto, in vari e articolati modi, di assumere il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi essenziali delle iniziative politiche in corso.
Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.

I compagni, i professoroni, i professori qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che anche questa via d’uscita dal berlusconismo, e da tutti gli affinismi col berlusconismo, è una «via maestra». La battaglia difficile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras non può ignorare il problema.
L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.