Come si sa, i giudizi in campo culturale vanno rispettati. Tuttavia sono rimasto stupito dal modo in cui Eugenio Renzi, in una corrispondenza da Parigi per il manifesto, ha commentato la grande mostra su Pasolini da poco inaugurata nella capitale francese. A Renzi della mostra non è piaciuto niente. Non gli è piaciuto il tema, lo svolgimento, la scelta dei curatori, finanche la location. «Ma come è possibile – si chiede sconsolato – che la Cinémathèque sia caduta così in basso?». La mostra l’ho vista a Barcellona e la mia impressione è stata molto diversa. Ma quel che più conta è che ho potuto verificare che anche i commenti di tutta la stampa spagnola sono stati molto positivi. Ne cito alcuni. El País: «E’ stato di grande profitto visitare la mostra Pasolini Roma e sfogliare il suo magnifico catalogo»; La Vanguardia: «In questi giorni il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona presenta una mostra su Pasolini che per il taglio nuovo e originale ricorda i suoi tempi migliori»; El Mundo: «La mostra Pasolini Roma ricrea la storia dell’amore-odio del cineasta verso la capitale italiana». Dello stesso tenore quelli della stampa francese. Le Monde: «Chiunque provi una curiosità o un interesse riguardo a questo immenso artista dovrebbe correre alla Cinémathèque française per vedere la mostra che rievoca il suo destino artistico e personale»; Libération: «La Cinémathèque presenta la vita tormentata del grande artista italiano attraverso i suoi rapporti di amore-odio con la città eterna».
Se ho citato questi giudizi è appunto perché contrastano radicalmente con quelli di Renzi, tanto da far pensare che si stia parlando di due iniziative diverse. Nell’articolo si scandalizza perché i curatori hanno scelto di concentrare il loro interesse in particolare sul rapporto tra Pasolini e Roma. Non tiene conto, però, di quale sia stata la genesi dell’iniziativa. Il prestigioso CCCB ha concluso proprio con questa esposizione un ciclo straordinario di mostre dedicate al rapporto tra alcuni grandi artisti e la loro città. Ne ricordo alcune: Joyce e Dublino, Kafka e Praga, Borges e Buenos Aires. E’ vero che Pasolini non era romano, ma è un fatto che molte delle opere più significative dedicate a Roma nel Novecento sono state prodotte dal genio di artisti non romani: “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, “il Pasticciaccio” di Gadda, “La dolce vita” di Fellini. Comunque sia Roma è, per Pasolini, il fulcro principale della sua vita e della sua arte. Giustamente nella mostra si dice che esiste una Roma prima e dopo Pasolini, perché il suo modo di guardare alla città è stato profondamente originale e innovativo, così come Roma ha trasformato Pasolini, facendolo tra l’altro assurgere da scrittore di provincia a autore di fama mondiale.
Del resto, all’opposto di quel che scrive Renzi («con un colpo di penna che sembra autoinferto, tutto un periodo della vita di Ppp è cancellato»), la mostra (come Renzi, contraddicendosi, subito dopo riconosce) dà ampio conto del periodo friulano e dei motivi che spinsero Pasolini a fuggire nella capitale con la madre. Si contesta la «territorializzazione di Pasolini, operazione legittima e nondimeno indigesta ché riduce a folklore e emozione il suo approccio politico e filosofico». Si parla di guide Michelin, di «ideologia localistica», perfino di operazione frutto, nientemeno, «di leggerezza, cinismo e incultura». Tutto questo perché i curatori hanno scelto di raccontare la scoperta pasoliniana di Roma attraverso gli occhi del poeta, ricorrendo a una delle figure stilistiche da lui preferite, quella della “soggettiva libera indiretta”. Dall’arrivo a Roma nel gennaio del 1950 alla morte avvenuta nel novembre del 1975, è come se Pasolini stesso raccontasse la sua storia attraverso immagini, filmati, fotografie, testi e molto altro ancora.
In questo lungo percorso esistenziale un ruolo cruciale assumono i quartieri in cui Pasolini ha vissuto o ambientato i suoi romanzi o girato i suoi film, quello insomma che Renzi definisce un po’ sprezzantemente “territorializzazione”. Ma in questo non c’è nulla di folklorico, quanto piuttosto una chiave fondamentale per comprendere le scelte artistiche e umane del poeta. Oltretutto è letteralmente non vero affermare che nessuno dei curatori è un vero esperto di Pasolini («nessuna competenza in realtà spiega la scelta di questi tre curatori se non quello che in Francia si chiama copinage»). Intanto c’è da dire che una mostra non è un libro o un saggio; bisogna saper usare uno specifico linguaggio per allestire un’esposizione degna di questo nome. Jordi Ballo (cineasta, animatore del padiglione catalano alla Biennale Arte di Venezia) al CCCB si è sempre occupato di questo, prima di essere sostituito per mere ragioni di spoil system dopo la sconfitta di Zapatero. Alain Bergala è un noto critico dei Cahiers du Cinéma, che a Pasolini ha dedicato numerosi saggi e ben due docufilm. Gianni Borgna a Pasolini ha dedicato saggi, monografie, due pièces teatrali e un film presentato con successo all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Ma Gianni Borgna è soprattutto un profondo conoscitore di Roma e un caro amico di Pasolini. Insieme noi due, con anche Walter Veltroni, negli ultimi anni della sua vita, fummo i suoi privilegiati interlocutori politici. E Pasolini pensava a noi quando, su nostra iniziativa, dichiarò il suo voto al Pci e disse che in un paese terribilmente sporco c’era però ancora un paese pulito, dignitoso e che resiste: il paese dei comunisti. Da allora soprattutto Gianni è diventato forse uno dei cultori più appassionati e raffinati del grande poeta. A lui toccò prendere la parola assieme a Moravia il giorno dei funerali; entrambi avemmo l’onore di portare, insieme al compianto Cerami, l’ultimo discorso di Pasolini al congresso del Partito Radicale. A me, infine, fu dato il compito di presentare “Salò” in prima mondiale al Festival di Parigi con Bernardo Bertolucci, che tradusse sul palco, in simultanea, il mio discorso. Ragioni, queste, che hanno spinto i responsabili del CCCB a chiedere a lui, inizialmente il solo ideatore-curatore della mostra, di presentare un progetto e un’ipotesi di allestimento (coadiuvato sempre, peraltro, dalla stessa cugina del poeta, Graziella Chiarcossi). La mostra poi, per la sua qualità e, vorrei dire, per la sua spettacolarità, è riuscita a coinvolgere altre sedi prestigiose come Parigi, Roma e Berlino, e a ottenere il sostegno della Comunità Europea. Proprio alla fine del pezzo, tuttavia, si comprendono forse le vere ragioni che hanno mosso l’articolista. Perché tutta l’ultima parte dell’articolo mostra un evidente risentimento personale verso Alain Bergala e ancor più verso Serge Toubiana, il celebre critico francese attualmente direttore della Cinémathèque. Un risentimento talmente forte da coinvolgere la Cinémathèque stessa, il palazzo che la ospita, il quartiere di Bercy in cui è inserita, definito a sua volta una «terra di nessuno dove sono stati costruiti la Biblioteca Mitterand e il Palazzo dello Sport». Ulteriore evidente contraddizione perché quegli edifici, unitamente a tutti gli altri che fanno di Bercy un nuovo centro di vita e di cultura, sono la più chiara testimonianza che di tutto si tratta tranne che di un terrain vague.