Considerazioni a festival finito. La prima notizia, annunciata dal presidente della Biennale Paolo Baratta è che la direzione di Alberto Barbera sarà prorogata per un anno, decisione peraltro prevedibile che permetterà di iniziare subito i lavori per l’edizione 2016 (31 agosto) in attesa della nomina del nuovo presidente prevista dopo il 19 dicembre (e anche qui la riconferma di Baratta sembra abbastanza sicura).

 

 

«Vince» almeno per ora quella continuità che nei diversi interventi pubblici durante il Festival Baratta ha ripetutamente indicato come necessaria per impostare un progetto solido di Mostra (ma sarebbe bello se al suo interno si rinnovasse la sigla, dopo quattro anni quella di Simone Massi fa l’effetto di un macigno). Sulle direzioni da prendere la e cose invece sono un po’ più incerte. La strada della novità intrapresa da Barbera quest’ anno è stata premiata col Leone d’oro a un esordiente, Lorenzo Vigas, venezuelano, (Desde allà uscirà in sala per la neonata Cinema di Valerio De Paolis), 48 anni, non proprio un «giovane» se vogliamo limitarci all’anagrafe e al valore aggiunto che tale categoria ha nell’Italia renziana – un amico americano mi fa notare con un certo stupore che la parola giovane viene utilizzata come un merito ogni volta che si parla di un esordio interessante.

 
Al di là dell’età e della ricerca di nuovi talenti, la scelta di Barbera di puntare per il concorso su registi non noti è parsa anche una strategia per aggirare, o forse meglio per ovviare quanto non si riesce più a avere al Lido, e per ragioni diverse: concorrenza (Toronto, New York film festival), strategia di marketing, costi troppo alti. Le major non vogliono più investire in trasferte europee da capogiro, lo stesso vale per il festival di Cannes, con la differenza che molti americani indipendenti – vedi i Coen – sono spesso coprodotti dalla Francia (lo stesso vale per molto altri film) il che può imporre più facilmente un passaggio sulla Croisette. In Italia non si coproduce un film americano (casomai è il contrario, molti film italiani sono coprodotti con società estere), e poi ci sono i timori delle recensioni, dell’accoglienza, Venezia ha la reputazione di essere un festival «difficile» che può pregiudicare gli esiti futuri.

 
Barbera nelle interviste prima e dopo la Mostra ha detto più volte che il cinema ha bisogno di un rinnovamento visto che i grandi registi degli anni passati mostrano ormai dei limiti.

 

fotomossa

Sarà. Certo però è che Pablo Trapero (Leone d’argento con El Clan) non è certo «un nuovo» regista, è stato scoperto proprio al Lido dalla Settimana della critica che invitò il suo sorprendente Mondo Grua. Erano gli anni della massima crisi economica argentina che ha generato un cinema vitale, quasi in reazione come è successo in Grecia; una generazione di registi allenati a reinventare budget e immaginari di cui Trapero (spesso anche invitato a Cannes) è stato un po’ il precursore, e poi anche il produttore di quelli più giovani, sguardi molto diversi tra loro ma tutti di grande impatto, spesso nei cartelloni festivalieri (il fatto che da noi esca in sala pochissimo o niente non vuol dire che non esista).

 
Non solo. Nel programma della Mostra i film che hanno acceso passioni sono stati quelli di Skolomowski, Gitai, Bellocchio, Anderson (che è una esordiente ma è un’artista da quarant’anni sulla scena della ricerca musicale e visiva) e poi Guadagnino, Gaudino, questi ultimi più giovani ma anche loro narratori obliqui del presente (altro dato che infastidisce) e splendidi visionari che credono con amore nella potenza delle immagini.

 
L’Italia ha vinto con Valeria Golino, una delle sue attrici più brave che il film di Gaudino valorizza al meglio. Un attore in «stato di grazia» non è mai solo o al di là del film (o dello spettacolo), per questo pur amando Luchini il Leone dove essere di Ralph Fiennes, geniale in The Bigger Splash o di Christopher Plummer per Remember.

 
Baratta commentando i premi ha detto che Cannes ha scoperto il cinema francese, e la Mostra quello sudamericano. Eppure a Venezia il cinema italiano era almeno con tre titoli, Sangue del mio sangue, The Bigger Splash, Per amor vostro fuoriclasse (non altrettanto si può dire per i francesi a Cannes). Ma al di là delle «stellette» sui giornali si ha l’impressione che ci sia un perverso gusto a «attaccarlo» preventivamente.

 
Che stranezza. Ci si lamenta sempre della mancanza di un grande cinema in Italia, e poi quando c’è un cinema che rischia, che è libero non va. Meglio rimanere allora nelle due-camere-cucina generazionali, almeno non ci si perde di vista?