«Il punto chiave della mia riforma elettorale è il ballottaggio», ha detto e ripetuto Matteo Renzi; la Corte costituzionale ha cancellato il ballottaggio. Come da previsioni, l’Italicum passando attraverso il giudizio della Consulta perde il cuore («senza casca tutto, è un’altra legge», ha sempre avvertito il suo autore, D’Alimonte), salvando il premio di maggioranza ma solo al primo turno. Andrebbe a un partito capace di raggiungere da solo il 40%, eventualità che oggi i sondaggi escludono. Bisognerà pensare ad alleanze travestite da listoni unici. O spostare il premio alle coalizioni, in questo caso però riportando la legge elettorale in parlamento.

Smentendo invece le previsioni originarie, ma confermando le sensazioni dell’udienza di martedì e gli indizi contenuti nella relazione del giudice Zanon, la Corte costituzionale ha salvato le pluricandidature. E bocciato solo la possibilità per i capilista eletti in più collegi di scegliere discrezionalmente per quale seggio optare, successivamente alla proclamazione dei risultati. È questo un punto molto delicato della decisione di ieri, quello che verosimilmente ha impegnato di più la discussione dei giudici e ritardato la decisione (attesa per le 13, è arrivata alle 17). Sul ballottaggio invece la discussione si è concentrata sugli argomenti da inserire nelle motivazioni, che scriverà Zanon entro un mese: la bocciatura sarà spiegata con l’aggiramento del criterio della soglia minima per assegnare il premio.

SALVARE I CAPILISTA bloccati (quelli cioè che non devono guadagnarsi le preferenze) e salvare anche il diritto del capolista di «pluri candidarsi» (fino a dieci collegi diversi, dice l’Italicum) – secondo le aspettative e le speranze di Renzi, condivise dagli altri partiti maggiori – ha richiesto ai giudici l’individuazione di un criterio per la selezione del collegio, diverso dalla discrezionalità dell’eletto. Non lo avessero fatto avrebbero dovuto affidare al parlamento questo lavoro, e dunque non avrebbero potuto scrivere (come hanno fatto, nell’ultima fondamentale riga del comunicato) che «all’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione». Questo criterio è il sorteggio, residuato nell’originale articolo del testo unico sulle leggi elettorali dov’è previsto come norma di chiusura: se l’eletto non sceglie entro otto giorni il collegio, allora decide il destino. Il che impedisce ai partiti di fare calcoli sui candidati arrivati secondi da promuovere o seppellire (in genere in base alla loro fedeltà al leader), ma continua a privare gli elettori del loro diritto di scelta – quello che invece era il presupposto della richiesta di incostituzionalità. Tant’è vero che c’è già l’ipotesi di nuove obiezioni di costituzionalità contro la legge appena nata.

I PROBLEMI NON FINISCONO qui, perché il collegio – proprio per effetto del ritaglio delle norme incostituzionali (in questo caso il comma 27 dell’articolo 2) – nell’Italicum corretto diventa la circoscrizione, il che significa che ci si potrà candidare più volte ma solo in regioni diverse. O quasi, perché un altro comma dell’Italicum che invece è sopravvissuto (la lettera b dell’articolo 1, l’originale emendamento riassuntivo Esposito) continua a parlare di collegi. È un altra incertezza che andrebbe risolta in parlamento.
Al contrario chi spinge per le elezioni anticipate (i renziani) enfatizza il passaggio finale del comunicato della Consulta. Effettivamente clamoroso. Non perché sia smentibile che la legge elettorale uscita dalla sentenza «è suscettibile di immediata applicazione»; questa al contrario è un’ovvietà per le sentenze di questo tipo. La legge elettorale, lo ha spiegato proprio la Consulta, è «costituzionalmente necessaria», dunque dev’essere sempre pronta all’uso. Ma questo Italicum corretto varrà solo per metà parlamento, ed è una legge assai diversa da quella in vigore per il senato (il Consultellum, scritto peraltro dagli stessi giudici). Le soglie di sbarramento sono diverse (più alte: 8% per i partiti che corrono da soli e 3% per quelli in alleanze), sono possibili le coalizioni (con uno sbarramento al 20%) e non c’è il premio di maggioranza. Tutt’altro che due sistemi «omogenei, non inconciliabili e pienamente operativi», come da precisa richiesta del presidente della Repubblica.

LE DUE RIGHE CONCLUSIVE dei giudici guardano solo alla situazione della camera e raccontano una mezza verità; sono più politiche che giuridiche. Non a caso nulla del genere era contenuto nel comunicato che annunciava la sentenza «gemella» del 2013 sul Porcellum. Al contrario, allora si riconosceva al parlamento la facoltà di intervenire sulla legge. E fu nelle motivazioni che i giudici spiegarono di aver prodotto una legge «complessivamente» applicabile, anche se precisando, come si deve a maggior ragione dire oggi, che «non rientra tra i compiti di questa Corte valutare l’opportunità e/o l’efficacia di tale meccanismo».
I giudici della Consulta hanno così accolto solo due richieste di incostituzionalità su undici. Può essere poco ma è tanto per il pool di avvocati che ha promosso i ricorsi. «È stato confermato il principio che leggi elettorali possono essere sottoposte alla Corte costituzionale anche prima del loro utilizzo a partire dai diritti dei cittadini elettori – dice il coordinatore del pool, Felice Besostri -. Il risultato dipende anche dall’atteggiamento dell’Avvocatura dello stato e dunque del governo, che ha chiesto l’inammissibilità totale dei ricorsi. Su questo abbiamo avuto ragione noi. Ne viene fuori una legge autoapplicativa sì, ma non omogenea con quella del senato. Il fatto che il Pd dica che la Corte ha salvato l’impianto dell’Italicum – conclude Besostri – conferma che quel partito ha perso ogni contatto con la realtà».