La 70ma seduta plenaria delle Nazioni unite, entrata nel vivo ieri a New York ha messo a fuoco un contesto internazionale in dinamica evoluzione. Nel giorno in cui dal podio dell’assemblea hanno parlato Obama e l’iraniano Rouhani, è stato Vladimir Putin a prendere l’iniziativa più incisiva, con la “mossa” diplomatica che segue l’escalation della “cooperazione” in Siria e l’annuncio di intelligence sharing con Iraq, Siria e Iran per combattere i militanti Isis.

Il suo discorso (assieme a quello di Hassan Rouhani che ha concluso i lavori della mattina) ha chiuso una manovra a tenaglia mirata a spiazzare Obama che poco prima di lui aveva esposto la sua dottrina di diplomazia globale. Con gli appelli di Obama per la pace in Medio oriente ancora nell’aria, Putin ha attaccato gli interventismi «eccezionalisti» addossando chiaramente a Washington e all’unilateralismo occidentale la responsabilità del caos mediorientale.

Putin ha specificamente parlato della Libia e della «distruzione del suo stato in seguito a una risoluzione illegale dell’Onu», che l’ha trasformata in «base di addestramento per estremisti». Sull’Iraq lo stesso Obama aveva ammesso poco prima che né 100mila soldati né trilioni di dollari spesi erano serviti a risolvere la situazione del paese.

Putin ha allargato la critica alla dottrina di interventi interessati che hanno portato solo «all’emergere di zone anarchiche dove il vuoto e stato riempito da estremisti» biasimando anche il retorico sostegno alle primavera arabe che non hanno avuto seguito se non in conflitti in cui «nessuno garantisce i diritti umani tantomeno quello fondamentale alla vita». Né, ha rincarato Putin, sono verosimili le professioni di superiorità morale dell’occidente quando lo stesso Isis «non è nato dal nulla ma è stato plasmato come strumento strategico di influenza» nella regione.

Alla luce dell’intervento russo, il discorso di Obama è apparso come un elenco professoriale di generiche buone intenzioni in cui il presidente ha potuto al massimo appellarsi ai successi americani contro Al Qaeda e una pur giustificata indignazione per le malefatte del «tiranno» siriano responsabile del massacro di «decine di migliaia di suoi concittadini». Una «carneficina – ha detto Obama – dopo la quale è impensabile tornare allo status quo ante». A tanta indignazione Putin ha però risposto con ineluttabile pragmatismo. Sarebbe un madornale errore, ha detto, non collaborare con Assad poiché «nessuno oltre alle sue forze sta davvero combattendo Isis». Il sostegno ad Assad è l’unica reale opzione, ha continuato Putin con un evidente occhio agli interlocutori europei, e la Russia si sta spendendo in questo senso attraverso una coalizione trasversale. Una nuova larga intesa contro il terrorismo simile a quella «contro Hitler» cui ha sottoscritto nel discorso successivo il presidente iraniano Rouhani.

Nel suo discorso Obama aveva criticato l’annessione russa della Crimea come esempio inaccettable di extralegalità territoriale invocando la soluzione diplomatica. Putin ha ribattuto duramente denunciando il desiderio di «alcuni stati membri» di intervenire unilateralemente in alcune regioni «come dimostrano gli sforzi per espandere la Nato offrendo a poveri stati ex sovietici una falsa scelta». Il tentativo di strumentalizzare una crisi regionale con secondi fini, ha sostenuto, è ciò che ha prodotto la guerra civile in Ucraina. Secondo Putin dunque non è la Crimea il problema ma i «protettorati di fatto» che alcuni stati credono ancora di poter instaurare. «Nessuno ha il diritto legale di imporre su altri sistemi di sviluppo decisi a priori» ha detto Putin in un affondo al paese “ospite”, il cui segretario di stato John Kerry aveva poco prima attraversato l’aula per abbracciare il presidente ucraino Poroshenko. E all’attacco sull’Ucraina Putin ha aggiunto quello a tutto campo sull’egemonismo economico che si espleta attraverso gli attuali accordi commerciali spinti da Washington.

Una blietzkrieg diplomatica quella di Putin che sfrutta abilmente a suo favore proprio il disgelo iraniano, immediatamente aggregando la repubblica islamica “sdoganata” da Washington alla coalizione per pacificare il Medio oriente. Un’iniziativa al cui confronto gli appelli americani contro i dittatori mediorientali sono apparsi deboli, per le passate ipocrisie elencate da Putin, ma soprattutto per difetto di un progetto concreto.

Dopo l’intervento del papa era emerso quasi un asse Washington- Vaticano fondato sui i successi su clima, cuba e accordo iraniano. Il calcolo di Putin è che il mondo sia pronto ora ad un nuovo pragmatismo che metta in scacco non solo l’egemonismo Usa ma anche gli idealismi progressisti.

Da questa settimana politica insomma sembra emergere un mondo con Cina e Russia davvero poli di un nuovo multilateralismo e sempre meno disposti a sottostare alla volontà unilaterale dell’occidente. La prima in virtù della potenza economica, la seconda per un decisionismo pragmatico tanto potenzialmente efficace quanto problematico come dimostra il fascino che la dottrina Putin esercita su alcuni regimi autoritari e molti neo-nazionalismi europei.